18 marzo 2025

Solennità di San Giuseppe, sposo della b. Vergine Maria

Nel contesto della visita pastorale all’Unità pastorale S. Bartolomeo – S. Giacomo in Crema, il vescovo ha presieduto la S. Messa della solennità di S. Giuseppe, nella vigilia, la sera del 18 marzo 2025, nella chiesa parrocchiale di S. Giacomo Maggiore in Crema. Riportiamo di seguito l’omelia.

 

È una sfida grande quella di “disappropriarci” di qualcosa che sentiamo giustamente e fortemente “nostro”. Dis-appropriarci: cioè rapportarci con quel “qualcosa” in modo da non farne mai, o da non farne più, una “proprietà”: e imparando, al tempo stesso, a custodire quel “qualcosa” come un bene prezioso, che merita rispetto, cura attenta; che merita, in definitiva, di essere “amato”: amato, appunto, ma non “posseduto”. È difficile, soprattutto se quel “qualcosa” è “qualcuno”, una persona, con la quale dunque stabiliamo relazioni significative, cariche di affetti, di storie condivise, di percorsi di vita fatti insieme.
È difficile, ma credo di non sbagliare dicendo che questa è la sfida che sta davanti a chi diventa padre o madre: e ha dunque tutto il diritto di parlare di “mio figlio, mia figlia, miei figli…”, con questo aggettivo, “mio”, che la grammatica chiama “di possesso”: e che però non è facile applicare senza sfumature alle persone: non posso dire “mio figlio, mia figlia” – o anche “il mio sposo, la mia sposa, mia moglie, mio marito”; e neppure “mio padre, mia madre” – allo stesso modo in cui dico, ad esempio: “la mia casa, la mia auto, i miei soldi…”

È difficile da maneggiare, questo aggettivo “mio”: soprattutto, ripeto, quando si tratta di persone. E ci aiuta, in questo, proprio l’avventura di fede di «Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo» (Mt 1,16). Giuseppe poteva dire, di Maria, è la “mia sposa”? Sì, senza dubbio: il vangelo appunto lo chiama «lo sposo di Maria». E poteva dire di Gesù: è “mio figlio”? Abbiamo sentito le parole di Maria a Gesù: «Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). Non c’è dubbio che a Nazaret Gesù fosse conosciuto come «il figlio di Giuseppe» (Lc 3,23), «il figlio del falegname» (Mt 13,55); e non abbiamo motivi per pensare che abitualmente, nel loro paese e nei dintorni, Giuseppe non si riferisse a Gesù come al suo figlio.
I racconti dei vangeli ci lasciano, capire, però, che Giuseppe, e Maria, e a suo modo anche Gesù, hanno dovuto imparare a usare quegli aggettivi possessivi (mio, tuo ecc.) in un modo nuovo. Dove, per dirla in breve, la novità consiste nel trasformare il “possesso” in “dono”.
Gesù è il “mio” (e “nostro”) figlio – così provo a immaginare il pensiero di Giuseppe – perché Dio mi chiede, ci chiede di donarci totalmente a Lui, di esistere per Lui, senza nessuna pretesa di possesso, di “proprietà”. Giuseppe e Maria sono stati guidati, nella fede, a intuire sempre meglio che quel loro figlio non era veramente “loro”, apparteneva a un Altro, a quel Dio che Gesù chiama «il Padre mio» (cf. Lc 2,49).
La paternità di Giuseppe, la maternità di Maria nei confronti di Gesù – certo in modo diverso – sono in un certo senso più “vere” di qualsiasi altra paternità e maternità, proprio perché quel Figlio appartiene a un Altro, appartiene a Dio; e loro, Giuseppe e Maria, hanno imparato poco alla volta a non volerlo “possedere”, quel Figlio, ma a donare la loro vita per Lui.

Questo intendevo dire, parlando di “disappropriazione”: che non è, quindi, solo qualcosa di “negativo”, il “non appropriarsi”. C’è qualcosa di profondamente positivo, invece, in questo dinamismo: è la logica per cui quel figlio non esiste per me, ma io esisto per lui, noi esistiamo per lui.
Forse possiamo spingerci a dire che Giuseppe a Maria, in questo modo, hanno “insegnato” a Gesù questa “logica” del dono, che è il contrario dell’appropriazione. Siamo certo sicuri che questa “logica” – che è poi quella che porterà Gesù a donare la sua vita per noi – Gesù la riceve, nel profondo della sua persona, da Dio, dal Padre: Gesù riceve tutto dal Padre suo, è il Figlio che fa quello che vede fare dal Padre (cf. Gv 5,19).
Ma questa “logica” di dono, di non-appropriazione, Gesù l’ha avuta anche davanti ai suoi occhi umani, l’ha respirata nella casa di Nazaret, alla scuola di Giuseppe e di Maria: dei suoi genitori in questo mondo, i quali, rispondendo alla chiamata di Dio, hanno saputo liberarsi da ogni logica di possesso, di chiusura egoistica, di pretesa umana di riconoscimento, per vivere nella logica divina del dono di sé, per vivere per quel Figlio che sentivano certamente come “loro”, ma proprio perché non se ne erano “impossessati”, ma avevano saputo donarsi interamente a lui.

Ho detto, incominciando questa mia riflessione, che quella della “disappropriazione” è la sfida che sta davanti a chi diventa padre o madre, e deve imparare che potrà vivere pienamente la paternità e la maternità solo entrando in questa logica del dono di sé (e questo vale anche, penso, per il rapporto reciproco tra sposa e sposo): logica che, come intuiamo facilmente, sarà forse bella da dire a parole, ma è tutt’altro che facile da vivere, specialmente quando abbiamo l’impressione, ad esempio, che i figli vadano un po’ per la loro strada, o quando ci sembra di sperimentare ingratitudine, invece che riconoscenza, e così via…
La logica difficile del dono di sé “in perdita” è la logica della Pasqua: e, naturalmente, non riguarda solo gli sposi o i genitori, ma riguarda tutti quelli che vogliono, come Giuseppe e Maria, mettersi sulla strada di Gesù e scoprire con lui e grazie a lui che non il nostro desiderio di possesso, di proprietà, di sicurezza, salva: ma salva l’amore di Dio, che si dona perdutamente a noi nella Pasqua del sul Figlio, e che ci viene comunicato per rendere possibile anche a noi lo stesso itinerario.
L’intercessione di san Giuseppe, sposo e padre nel dono totale della sua vita, ci sostenga, ci incoraggi, ci faccia sperimentare la gioia di una vita salvata perché donata senza riserve a Dio e ai fratelli.