Messa per la 108ª giornata mondiale del migrante e del rifugiato

Il vescovo Daniele ha presieduto la S. Messa in Cattedrale, a Crema, domenica 25 settembre 2022, in occasione della 108ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Riportiamo di seguito la sua omelia.

 

Guarda al futuro il Messaggio che papa Francesco ha trasmesso alla Chiesa per questa 108ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato: un messaggio che si apre con le parole della lettera agli Ebrei, secondo la quale «non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Eb 13,14), e continua ricordando che «il senso ultimo del nostro “viaggio” in questo mondo è la ricerca della vera patria, il Regno di Dio inaugurato da Gesù Cristo, che troverà la sua piena realizzazione quando Lui tornerà nella gloria».
Guarda al futuro anche la parabola di Gesù che abbiamo ascoltato ora nel Vangelo (cf. Lc 16,19-31): una parabola che immagina un dialogo a distanza tra un ricco, che vive ormai irrimediabilmente nella perdizione, e Abramo, presentato come il padre di tutti quelli che, come il povero Lazzaro, sono entrati nella pienezza della vita.
Il ricco e Abramo possono in qualche modo parlarsi, ma la distanza tra loro è irrimediabile, insuperabile: «Tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi» (v. 26).
Questa distanza insuperabile tra chi è perduto e chi è salvato, tra chi – diciamolo con il linguaggio tradizionale – finisce all’inferno, e chi è in Paradiso, rappresenta però ciò che Dio non vuole. In molti testi della Bibbia è chiaro che Dio vuole la salvezza di tutti. Per non andare tanto lontano, ce lo ricordava la seconda lettura di domenica scorsa, tratta dalla prima lettera di Paolo a Timoteo: lì l’apostolo assicura che Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4).
Questo è il desiderio di Dio: che tutta l’umanità approdi alla pienezza della vita. Per questo egli ha donato il suo Figlio, accettando persino la sua morte di croce; per questo continua a effondere lo Spirito, che incessantemente opera nel mondo perché si realizzi questo progetto di salvezza.
Ma tutto questo si realizzerà nel futuro solo a condizione che sappiamo prepararlo nel presente. Non c’è altro tempo, non c’è altra situazione, se non l’oggi della nostra vita, nel quale possiamo conoscere questo desiderio di Dio che tutti siano salvi, che tutti abbiano una vita buona e degna; conoscerlo e farlo nostro, incominciando a costruire oggi, per grazia e dono di Dio, un’umanità che assomigli sempre di più a ciò che Dio desidera: un’umanità più fraterna, più accogliente, più attenta alle necessità di tutti… Un’umanità convinta che né il presente, né il futuro – quello che riusciamo a intravedere noi, ma anche quello che Dio ci promette – potranno essere davvero secondo Dio, finché ci saranno poveri che bussano alle nostre porte e le cui speranze, il cui desiderio di giustizia, la cui sete di vita, sono ignorate, respinte.

Personalmente mi sono fatto l’idea che il male più grave di questo ricco, di cui ci parla Gesù nella parabola, fosse l’insensibilità: una specie di azzeramento dei sensi, che gli impediva persino di ‘vedere’ il povero alla sua porta. Il povero faceva parte del suo paesaggio quotidiano, era sempre lì: e forse l’abitudine velava lo sguardo al ricco e gli impediva di accorgersi dell’abisso sempre più profondo che si andava scavando tra sé e il povero.
Riconosciamo che questo è un rischio anche per noi. L’abitudine alle notizie anche più tragiche – l’ennesimo barcone che si rovescia, l’ennesima ondata di profughi che devono fuggire da guerre o da carestie, l’ennesimo migrante, un ragazzo siriano, trovato morto in un camion non lontano da qui, ad Agnadello, un mese fa… – questa abitudine rischia di chiudere i nostri occhi, i nostri sensi, il nostro cuore…
I nostri sensi si chiudono, e si chiudono le nostre mani, le nostre scelte in campo sociale, economico, politico, educativo… Corriamo il rischio di approfondire sempre più l’abisso che ci divide gli uni dagli altri, e di mettere così a repentaglio il presente e il futuro;
mentre la sfida che ci viene dal Vangelo è appunto quella di pensare che solo insieme possiamo cercare di edificare un presente degno di Dio e dell’uomo, e di preparare così – per quel che sta in noi – quei «cieli nuovi e terra nuova» di cui ci parla la fede.

Come scrive papa Francesco:

«Nessuno dev’essere escluso. Il progetto [di Dio] è essenzialmente inclusivo e mette al centro gli abitanti delle periferie esistenziali. Tra questi ci sono molti migranti e rifugiati, sfollati e vittime della tratta. La costruzione del Regno di Dio è con loro, perché senza di loro non sarebbe il Regno che Dio vuole. L’inclusione delle persone più vulnerabili è condizione necessaria per ottenervi piena cittadinanza».

E ci ricorda ancora, il Papa, che questa inclusione è non solo doverosa, ma anche, per così dire, vantaggiosa:

«La presenza di migranti e rifugiati rappresenta una grande sfida ma anche un’opportunità di crescita culturale e spirituale per tutti. Grazie a loro abbiamo la possibilità di conoscere meglio il mondo e la bellezza della sua diversità. Possiamo maturare in umanità e costruire insieme un “noi” più grande. Nella disponibilità reciproca si generano spazi di fecondo confronto tra visioni e tradizioni diverse, che aprono la mente a prospettive nuove. Scopriamo anche la ricchezza contenuta in religioni e spiritualità a noi sconosciute, e questo ci stimola ad approfondire le nostre proprie convinzioni».

Risorgendo dai morti, il Signore Gesù ha superato definitivamente l’abisso che separava Dio dall’umanità peccatrice e destinata alla morte. Vivere da donne e uomini che credono in Gesù Cristo morto e risorto significa riconoscere che questo abisso è stato superato, ma anche adoperarsi attivamente per superarlo ogni giorno nei nostri rapporti vicendevoli.
Ci aiuti Dio, perché non ci accada di trovarci di nuovo, e per sempre, separati da Lui e dagli altri, tagliati fuori dall’amore che, solo, dà senso alla vita nostra e di tutti.