28 marzo 2024

Messa “nella cena del Signore”

Il vescovo Daniele ha presieduto la Messa “in cena Domini”, la sera del giovedì santo, 28 marzo 2024, nella Cattedrale di Crema, e ha compiuto il rito della “lavanda dei piedi”. Riportiamo di seguito l’omelia.

 

Il male c’è, il male è presente nel mondo, fa parte della nostra vita. Con l’aiuto di Dio, noi possiamo cercare di combatterlo in noi stessi: possiamo riconoscere il nostro peccato, come siamo invitati a fare anche in modo particolare in questi giorni per disporci alla celebrazione della Pasqua; possiamo e anzi dobbiamo chiedere il perdono di Dio e la forza dello Spirito Santo per allontanarci sempre più dal male e avvicinarci al bene: e possiamo confidare sul fatto che questo aiuto ci verrà.
Ma che cosa possiamo fare con il male che è fuori di noi, il male che incontriamo in altre persone, e che magari vogliono e in qualche caso compiono il male proprio contro di noi? O anche con quel male che magari non ci tocca direttamente, e però ci fa soffrire, perché ci sentiamo vicini ad altre persone che soffrono, perché vediamo che si generano ingiustizie intollerabili, nascono conflitti che portano distruzione e morte, conducono a disperazione e rovina…
«Il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota», di tradire Gesù (cf. Gv 13,2), racconta l’evangelista: che sia su istigazione del diavolo, che nasca da un cuore indurito e malvagio, che fare, di fronte a questo male?
Si può tentare di fuggire, di sottrarsi al male che ci viene incontro, ma non sempre è possibile. E questa fuga, poi, sarebbe una risposta sufficiente? C’è chi pensa che si debba reagire con mezzi equivalenti o più consistenti, che le forze considerevoli del male si possano fronteggiare solo con forze altrettanto e più considerevoli…
Gesù, «nella notte in cui veniva tradito» (cf. 1Cor 11,23: II lettura) non tenta la via della fuga, e meno ancora quella di rispondere al male con il male, o anche solo con la forza; e neppure con una difesa che sarebbe stata anche “legittima”, e che i suoi discepoli tentano di mettere in atto, un po’ maldestramente, tirando fuori una spada durante i momenti concitati dell’arresto (cf. Mt 26,51-54 e par.).
Di fronte al male che gli viene incontro, Gesù risponde con l’eccesso dell’amore: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 1,1) ossia, appunto, fino all’estremo del dono di sé: un estremo che in nessun modo “giustifica” il male, e anzi lo condanna con forza ancora maggiore, e però non si propone di sradicare il male con le sue stesse armi, ma di andargli incontro con la sola forza disarmata del dono di sé.
Di questo dono pieno, di questo estremo dell’amore, che si manifesterà nel «tutto è compiuto» dell’ultima parola di Gesù sulla croce (cf. Gv 19,30), il Signore ci ha lasciato due segni, diciamo anzi due “sacramenti”.

Il primo è quello che chiamiamo più abitualmente e in senso pieno sacramento, ed è l’Eucaristia, la cui istituzione noi commemoriamo proprio in questa Messa “nella Cena del Signore”. In quella cena il Signore manifesta, e mette in mano ai discepoli, perché ne facciano il nutrimento della loro vita, precisamente il dono di Sé “fino all’estremo”, che si compirà di lì a poco sulla croce.
Non dimentichiamolo: in quella cena, Gesù siede a tavola con i discepoli che, di lì a poco, lo tradiranno, lo rinnegheranno, lo abbandoneranno… La cena anticipa e contiene la risposta del Signore a tutto questo: al male, Gesù risponde con il bene, al tradimento con il dono, alla fuga con un dono di amore al quale i discepoli potranno sempre attingere, e che anzi preannuncia una comunione eterna, perché ogni volta che mangiamo di quel pane e beviamo al calice, noi annunciate la morte del Signore, finché egli venga (cf. 1Cor 11,26).

E poi c’è l’altro sacramento, quello della lavanda dei piedi. Lo chiamiamo così, certo, in un senso improprio, non fa parte dei sette sacramenti: e però chiamarlo così aiuta, forse, a capire meglio la portata di quel gesto. Perché ciò che Gesù fa è più, molto di più che fare un gesto pur ammirevole di servizio: quel gesto, per come l’evangelista ce lo presenta, contiene in sé tutta la dedizione, tutta la consegna che Gesù fa della sua vita.
Rifiutarlo, come vorrebbe fare Pietro, non vuol dire soltanto esibire un atteggiamento di buona educazione e di rispetto: vuol dire, invece, non capire e non accettare la totalità del dono del Signore, vuol dire non capire il modo in cui Gesù risponde al male, e dunque poi, in definitiva, non accettare la logica paradossale del comportamento del Signore.
E per noi, naturalmente, accettare che il Signore abbia compiuto questo gesto, e che ci abbia lasciato, con il sacramento del suo Corpo e Sangue, anche la lavanda dei piedi, significa riconoscere e accettare la logica paradossale, per la quale la risposta al male, alla violenza e all’odio è l’amore senza confini, l’amore che si fa servizio generoso e instancabile.
Fare anche noi ciò che ha fatto Gesù – come lui stesso ha chiesto ai suoi discepoli (cf. Gv 13,15) –, significa manifestare nel mondo la forza trasformatrice dell’amore, di un amore che si oppone al malvagio, e al male che c’è in lui, senza cessare di amarlo, nella consapevolezza che tutti abbiamo bisogno di essere liberati dal male che è in noi, e che solo il dono che ci viene da Dio, in Gesù Cristo, può compiere questa liberazione.

Ci sostenga in questo la partecipazione all’altare del Signore e al sacramento di unità, di riconciliazione e di speranza, che egli ha voluto lasciarci prima di celebrare la sua Pasqua gloriosa.