Il vescovo Daniele ha presieduto in Cattedrale la Messa della “Cena del Signore”, nella quale si commemora l’istituzione dell’Eucaristia e del sacerdozio, e si ricorda il mandato della carità. Riportiamo di seguito l’omelia del vescovo.
Fino a questa pagina di vangelo, con la quale introduce solennemente il racconto pasquale di Gesù (cf. Gv 13,1-15), il quarto evangelista non ci aveva ancora parlato in modo esplicito dell’amore di Gesù per i “suoi”: c’era stato solo un accenno, fugace, anche se importante, a proposito di Marta, Maria e Lazzaro, con i quali Gesù aveva un legame speciale di amicizia (cf. Gv 11,5.36). Adesso, però, ci viene detto che questo amore era presente e che, a loro modo, anche i primi dodici capitoli del vangelo – quello che abbiamo appena ascoltato era l’inizio del tredicesimo capitolo – erano racconto dell’amore di Gesù per i suoi; erano, anzi, rivelazione dell’amore di Dio, del Padre, per il mondo: perché fin dalle prime pagine del vangelo chi legge impara che «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (3,16).
E l’evangelista conferma, come abbiamo sentito: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo…» (13,1): così il lettore del vangelo capisce meglio che le parole di Gesù, i “segni” da lui compiuti, e anche le polemiche, a volte molto dure, che si instaurano tra Gesù e i suoi avversari, nella prima parte del vangelo… tutto questo, appunto, dev’essere riconosciuto come parte dell’amore di Gesù per i suoi, per quelli che il Padre gli ha “dato”.
Adesso, però, si fa un passo in avanti: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine», aggiunge l’evangelista; dove “fine” traduce solo in parte il senso della parola greca; non si tratta solo di un amore che si spinge fino al termine della vita terrena di Gesù, ma di un amore che raggiunge la sua “pienezza”, il suo “compimento”.
Proviamo a chiederci, brevemente, in che cosa consiste questa “pienezza”, questo amore vissuto “fino alla fine”, e di cui è segno – teniamocelo in mente, perché poi lo ripeteremo tra poco – il gesto della “lavanda dei piedi”: che non rappresenta solo un gesto di “servizio” (tutt’altro che scontato, peraltro), ma è, agli occhi di Gesù che lo compie, e dell’evangelista che lo racconta, appunto segno della pienezza dell’amore.
In che cosa consiste, dicevo, questa “pienezza dell’amore”? Una prima risposta la troviamo guardando al contesto. Subito prima di questa pagina, l’evangelista Giovanni ha dato conto di quello che, in definitiva, possiamo chiamare il fallimento della missione di Gesù: «Sebbene avesse compiuto segni così grandi davanti a loro, non credevano in lui» (cf. 12,37), scrive l’evangelista, riassumendo l’esito della missione di Gesù.
Perché è relativamente facile vivere l’amore, anche in modo impegnativo, quando c’è una qualche risposta, un’accoglienza di questo dono; ma perseverare nell’amore di fronte al rifiuto, e addirittura di fronte a chi, per tutta risposta, ti vuol mettere in croce, è tutt’altra cosa…
È vero: qualcuno ha continuato a seguire Gesù: ci sono questi discepoli, che sono insieme con lui, e ai quali egli lava i piedi, e ai quali – ce lo ha ricordato Paolo nella seconda lettura, ce lo ricordano gli altri evangelisti – egli lascia il dono dell’Eucaristia: ma Gesù sa che uno di loro sta per tradirlo (cf. v. 11), che un altro lo rinnegherà (cf. vv. 37 s.), che tutti finiranno per fuggire…
Se Gesù continua ad amare i suoi “fino alla fine”, non è perché questi siano bravi e buoni, non è perché gli danno “soddisfazione”… Incominciamo a capire che amare fino alla fine vuol dire amare “in perdita”, vuol dire amare perché si è fatta la scelta di amare, perché questo amore che si dona perdutamente ha in sé stesso le sue ragioni, e non le va a cercare aspettandosi un tornaconto.
Il senso di questa scelta, Gesù lo dirà ancora più avanti, parlando ai discepoli prima di avviarsi alla passione: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (15,13). Se Gesù decide di andare avanti fino alla fine – che vuol dire fino alla croce – nella via dell’amore, è perché ha deciso di fare dei “suoi”, di quelli che il Padre gli dato, i suoi “amici”.
Ogni tanto mi è capitato di chiedermi perché nel vangelo di Giovanni non si parla mai di amore per i nemici, come leggiamo negli altri vangeli. E forse una risposta la troviamo qui: io posso anche cercare di fare del bene (che è certamente un modo di ‘amare’) a qualcuno che magari neppure mi conosce, o addirittura a qualcuno che non mi vuol bene, che ha cercato, o cerca, di farmi del male. Posso cercare di perdonarlo, di rendergli il bene in cambio del male, come dice Paolo (cf. Rm 12,21). Ma farmelo addirittura amico? Instaurare con lui un legame personale, profondo, duraturo, fino ad arrivare a dare la mia vita per lui? Non mi sembra una cosa tanto facile…
Questo, però, è ciò che il Signore poi chiede a chi vuole essere suo discepolo e amico, perché subito prima aveva detto: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12).
Quel “come”, è bene ricordarlo, non vuol dire solo: “allo stesso modo”. Vuol dire anche, e prima ancora: dal momento che io vi ho amato, e per il fatto che io vi ho amato, anche voi dovete amarvi gli uni gli altri.
E qui cogliamo un altro aspetto dell’amore dato “fino alla pienezza”: ed è quello della sua fecondità, della sua generatività. Gesù avrebbe potuto dire ai discepoli: «Dal momento che vi ho amato, voi dovete amare me». Ma Gesù non cerca il contraccambio: o meglio, il solo contraccambio che desidera è che l’amore, che lo ha portato a dare la sua vita per noi, diventi fecondo, entri nelle pieghe della vita e del mondo attraverso discepoli che, radicati in Lui, si impegnano a fare come ha fatto Lui, diventando così testimoni viventi del suo amore: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (13,35).
Gesù non affida tutto questo solo alla nostra buona volontà: sa benissimo che andremmo poco lontano. Per questo, in questa vigilia della sua Passione sofferta per noi, mette nelle nostre mani il sacramento del suo amore dato fino alla pienezza, che è l’Eucaristia. Commemorandone, questa sera, l’istituzione, e contemplando anche nell’adorazione il Corpo donato e il Sangue versato, chiediamo a Dio di tornare sempre ad attingere, da questo sacramento pasquale, il dono di un amore più grande.