Domenica 16 marzo 2025 il vescovo Daniele ha presieduto, nella Cattedrale di Crema, la Messa in memoria del servo di Dio don Oreste Benzi, fondatore dell’Associazione “Papa Giovanni XXIII”, di cui ricorre, quest’anno, il centenario della nascita (7 settembre 1925). Riportiamo di seguito l’omelia.
Sarebbe poco sensato, da parte mia, venire a raccontarvi qualcosa di don Oreste, del suo percorso cristiano e sacerdotale, del suo carisma, delle opere che ha fondato… Dovrei mettermi qui buono buono, e farmi raccontare tutto questo da voi. Del resto, la vostra stessa presenza qui, e la presenza vostra e delle vostre comunità, delle case famiglia, delle “capanne” ecc., in diocesi, è già racconto di don Oreste e di ciò che Dio gli ha dato la possibilità di realizzare.
Don Oreste avrà letto e meditato, senz’altro, la pagina della Genesi su Abramo, che abbiamo ascoltato nella prima lettura (cf. Gen 15,5-12.17-18); e mi chiedo se gli sia capitato qualche volta, contemplando il cielo stellato, di sentire che Dio prometteva anche a lui una discendenza grandissima, innumerevole, come le stelle del cielo; a lui, prete, uomo non sposato, una discendenza fatta soprattutto di piccoli, di poveri, di malati, di carcerati, di vittime della droga e di altre dipendenze, di donne sfruttate incontrate sulla strada…
E una discendenza fatta anche di tutti quelli e quelle che lui ha saputo coinvolgere in tutto quel che ha fatto, nel modo molto diretto che mi è stato raccontato molto tempo fa, vivente ancora don Oreste, nel mio primo incontro con una casa famiglia sulle colline bolognesi – dove, forse (ma qui il mio ricordo purtroppo non è sicuro fino in fondo), ho avuto poi anche l’occasione di incontrare personalmente lo stesso don Oreste.
Preferisco lasciare il più possibile la parola a don Oreste, per aiutarci a cogliere qualcosa del mistero della trasfigurazione del Signore, che la liturgia ci propone in questa seconda domenica di Quaresima.
Vorrei richiamare anzitutto alcune frasi nelle quali don Oreste si ferma sull’importanza del poter fare “esperienza di Dio”: un tema sul quale, a quanto ho capito, egli insisteva molto:
Perché i discepoli dicono: «È bello per noi stare qui»? Perché sono fatti per quell’esperienza, che è il bene sommo e pieno, dove si trova la soluzione definitiva del nostro essere. L’esperienza di Dio è intraducibile! Hanno fatto esperienza di una presenza particolare di Gesù: si è rivelato il Figlio nella sua realtà divina, hanno percepito, in maniera confusa e misteriosa, ma reale, Gesù nel suo essere Dio. Che scoperta hanno fatto gli apostoli! Finalmente la profondità dello Spirito, quello in cui noi siamo somiglianti a Dio, ha trovato per un istante la risposta piena, un anticipo dell’eterno. Tutto il nostro cammino tende all’esperienza di Dio che dà ragione a tutto, e nel momento in cui accade, subito ti trasfiguri e si trasfigura tutto il tuo rapporto col mondo, con gli uomini, con i fratelli e le sorelle. Allora tu ricapisci cosa vuol dire vedere nel volto del piccolo, del povero, il volto di Dio (Commento al vangelo del 6 agosto).
Quest’ultimo accenno ci dice anche, mi sembra, che don Oreste non avrebbe separato l’esperienza fatta dai discepoli sul monte Tabor con ciò che i vangeli raccontano subito dopo: quando, sceso dalla montagna, Gesù vede gli altri suoi discepoli alle prese con una situazione di cui non riescono a venire a capo: quella di un ragazzo sofferente, perché epilettico e indemoniato (cf. Lc 9,37-43). Sarà poi Gesù a guarirlo, rispondendo all’invocazione accorata del padre di questo ragazzo.
Ed è interessante notare che, per lo meno nel vangelo di Marco, quando i discepoli chiedono al Signore perché loro non sono stati capaci di liberare quel ragazzo dal male che lo teneva prigioniero, Gesù risponda dicendo: «Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera» (Mc 9,29).
È come, insomma, se i due poli della vita credente: e cioè quello che si vive sul monte della trasfigurazione nel contesto della preghiera, e quello che si vive nella pianura, quando in tante forme il male che tiene prigioniero l’uomo ci viene incontro, si richiamassero a vicenda.
Do ancora la parola a don Oreste, in un suo commento proprio alla liturgia delle seconda domenica di Quaresima di tanti anni fa (1986):
Una vita intensa di attività, divorata dalle creature, dai poveri, non è certamente in opposizione ad una vita immersa nella preghiera, anzi! Credo sia molto difficile reggere a una vita totalmente presa dal prossimo, se quella vita non è totalmente presa da Dio. E quando la vita è totalmente presa da Lui, c’è una forza particolare che rende possibile ciò che è impossibile umanamente.
L’uomo ha bisogno non soltanto di farsi indicare il cammino da Dio, ma di camminare con Lui. L’uomo, per essere pienamente uomo, ha bisogno di una profonda esperienza di Dio. La parola esperienza vuol dire provare, vuol dire sentirlo: è una compenetrazione.
Nella stessa occasione, don Oreste diceva ancora, riferendosi anche alle parole di Paolo ai Filippesi, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura (cf. Fil 3,17 – 4,1):
Tu non puoi fare a meno di Dio, per cui fai diventare il tuo dio qualcosa o qualcuno. E molti hanno come dio il loro ventre, come dio il loro orgoglio, come dio la loro vanità, come dio il loro egoismo, come dio la loro carnalità, per cui riducono ciò che è stupendo nella vita dell’uomo e della donna ad una pura carnalità, anziché essere l’espressione di un qualcosa di stupendo nel disegno di Dio.
Il loro dio è diventato il loro orgoglio, per cui non perdonano, per cui non passano sopra, per cui non respirano il respiro universale di cosa voglia dire amare i nemici, fare del bene a chi fa del male, perdonare chi ti offende. Questo noi dobbiamo temere! Non dobbiamo temere di amare troppo, dobbiamo temere di amare poco. Non dobbiamo temere di pregare troppo, dobbiamo temere di pregare poco. Non dobbiamo temere di donarci troppo, dobbiamo temere di non donarci a Dio, perché diventa impossibile poi donarsi all’uomo.
Ecco, qui raggiungiamo, credo, il cuore dell’esperienza di Dio e dell’uomo che ha vissuto anche don Oreste: «Non dobbiamo temere di donarci troppo, dobbiamo temere di non donarci a Dio, perché diventa impossibile poi donarsi all’uomo». In quella stessa omelia del 22 febbraio 1986 aveva detto: «Noi notiamo, in quegli amici del Signore che chiamiamo santi, come essi erano costantemente presenti a Dio e Dio era presente a loro. Erano in una sintonia piena, per cui la loro vita era tanto umana».
Possiamo dire, credo, che ciò che don Oreste diceva dei santi, noi l’abbiamo riconosciuto in lui.
Ringraziamo Dio, dunque, per avercelo donato; ringraziamolo per come lui, don Oreste, aveva risposto all’amore di Dio donando tutto se stesso a Dio e all’uomo. E ci conceda di Dio di lasciarci anche noi trasfigurare nella sua luce e di donarci a Lui e ai fratelli senza nulla trattenere.
