7 febbraio 2024

Memoria del b. Alfredo Cremonesi

Mercoledì 7 febbraio 2024 il vescovo Daniele ha presieduto la Messa della memoria del b. Alfredo Cremonesi al Santuario della Madonna delle Grazie in Crema. Riportiamo di seguito l’omelia

 

Nonostante la connotazione peggiorativa che la parola ha assunto nel nostro linguaggio corrente, non c’è nulla di negativo, di per sé, nell’essere un “mercenario” [cf. vangelo: Gv 10,11-16, in partic. v. 12]. La parola vuol dire semplicemente: uno che fa un lavoro e, per questo lavoro, riceve un salario: un salariato, uno stipendiato, appunto.
Quando riferisce la parabola di Gesù del proprietario della vigna che a tutte le ore va a cercare lavoratori per la sua vigna, per indicare questa azione di assunzione di operai, l’evangelista usa proprio il verbo da cui deriva la parola tradotta con “mercenario” (cf. Mt 20,1.7).
Eppure, anche se non è necessariamente negativa, la condizione di chi fa un lavoro e viene regolarmente stipendiato non basta a dire il modo in cui Gesù vive la missione che il Padre gli ha assegnato, missione per la quale usa qui l’immagine biblica del pastore, e anzi del «buon pastore»: dove questo aggettivo, “buono”, non indica tanto un sentimento (la bontà del pastore verso le pecore; anche se la cosa non è esclusa, naturalmente), quanto piuttosto il fatto che qui, in Gesù, abbiamo il pastore “vero”, il pastore che realizza pienamente ciò che la figura del pastore promette già nel primo Testamento.
E cosa fa, dunque, il «buon pastore», il pastore vero, che Dio attendeva e preparava da sempre, per il bene del uso popolo? «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (v. 11). C’è tutto, dentro a questa frase: però dobbiamo provare a dipanarla almeno un po’, anche perché la cosa ci aiuta forse a guardare meglio anche dentro alla vita, alla missione e al martirio del beato Alfredo Cremonesi.

L’evangelista Giovanni è molto sottile, nell’uso delle parole: e per dire di questo dono della vita, usa qui non il verbo “dare”, ma un altro verbo, il cui senso fondamentale è “deporre” – bisogna andare con la memoria all’episodio che poi l’evangelista racconterà più avanti, la lavanda dei piedi: scena aperta con il gesto di Gesù che «depone» le vesti, prima di cingersi di un asciugamano e piegarsi a lavare i piedi ai discepoli (cf. 13,4): il verbo è lo stesso.
E forse qui possiamo intenderlo anzitutto con questa sfumatura: “deporre” nel senso di “esporre”, cioè mettere a rischio la vita, ma a favore di altri. Il mercenario può fare un lavoro onesto, ma non si “espone”, non si mette a rischio. Gesù non va in cerca della morte per la morte, però si espone al pericolo, al rischio e fino alla morte stessa, perché questo è richiesto dalla missione di difendere e proteggere il gregge.
Mi sembra che questa consapevolezza del rischio faccia parte, fin dall’inizio, della vocazione missionaria del beato Alfredo. Nemmeno lui poteva prevedere tutto ciò che la risposta a questa chiamata gli avrebbe prospettato: la difficoltà di imparare una lingua nuova e difficile, di immergersi in una cultura diversa dalla sua, la fatica di una missione che gli chiedeva spostamenti estenuanti, il clima tutt’altro che favorevole a una buona salute, le difficoltà nel rapporto con le persone e anche con i confratelli, lo scoppio di un conflitto mondiale, e poi il trovarsi sulla linea del fronte di una guerra civile…
Alcune di queste cose potevano essere prevedibili, altre no: ma nel momento in cui la vita è “esposta”, è offerta, tutto, in un modo o nell’altro, è già messo in conto. Il che non vuol dire, naturalmente, che tutto sia facile, ci mancherebbe! Ma messa in conto, insieme con la “esposizione” di questa vita, è anche la presenza amorevole del Padre, la forza che viene dal suo Spirito, e che si alimenta continuamente nella preghiera e nella lunga familiarità con Dio.

Il vangelo, però, ci fa fare un altro passo avanti: perché la disponibilità del buon pastore a “esporre” la propria vita si precisa nella relazione personale con le “pecore”. Io, dice Gesù, «conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore» (vv. 14-15).
“Conoscere” non vuol dire tanto una conoscenza teorica o pratica: non è la conoscenza che si può acquisire con lo studio o eventualmente con l’esperienza e la riflessione. “Conoscere”, qui, è semplicemente sinonimo di “amare”: e dunque «dare la vita» diventa l’espressione piena dell’amore – come poi dirà ancora Gesù, «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (15,13): il verbo è sempre lo stesso, si tratta sempre di “esporre la vita”, ma non per un ideale, per quanto alto; non per uno scopo, per quanto nobile, e neppure per una missione, per quanto esaltante.
No, qui la vita viene “posta” per gli “amici”, diventa l’espressione piena dell’amore personale, e di un amore che addirittura – così la Chiesa legge il martirio – fa anche dei nemici i propri amici, di un amore che prega e intercede anche per i persecutori, e spera per tutti misericordia e perdono.
L’ultima “molla”, per così dire, che spinse il beato Alfredo ad affrontare tutti i rischi, fu appunto questo amore per coloro che Dio gli aveva affidato, e dai quali non voleva più separarsi.

Il legame di amore del beato Alfredo nei confronti del suo gregge è adesso definitivo grazie al suo martirio. Ora la sua intercessione accompagni in modo particolare la Chiesa, i cristiani e tutto il popolo del Myanmar; e il suo esempio ci spinga a non avere paura di esporre la nostra vita per Gesù Cristo, per il suo Vangelo, e a fare nostro il comandamento nuovo del Signore: Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi (cf. 13,34).