16 marzo 2025

Inaugurazione della visita pastorale nella città di Crema

Il vescovo Daniele ha presieduto la celebrazione della Messa al “Palabertoni” di Crema, domenica 16 marzo 2025 (II di Quaresima) per l’apertura ufficiale della visita pastorale alle parrocchie della città di Crema. Alla Messa erano invitati i fedeli e i sacerdoti di tutte le parrocchie (nelle quali era stata sospesa la Messa delle ore 11). Riportiamo di seguito l’omelia del vescovo.

 

Mi lascio guidare da tre immagini, che ci sono offerte dai testi biblici di questa Messa, e che ci offrono – credo – anche la prospettiva giusta nella quale vivere la Visita pastorale alla città.

La prima immagine è proprio quella della città. Noi viviamo in questa città di Crema, siamo membra delle comunità cristiane costituite in questo territorio, in questo spazio urbano, dove si intrecciano le azioni, gli interessi, i fatti che costituiscono la nostra vita quotidiana di cittadini, con la nostra appartenenza a Gesù Cristo e alla sua Chiesa.
Come discepoli di Gesù che vivono in questa città, sentiamo che davvero «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce» nostre, di noi discepoli di Cristo; e nulla vi è di genuinamente umano, di quanto si vive nel mondo e, concretamente, in questa città, che non trovi eco nel nostro cuore (cf. Gaudium et spes 1).
Sì, queste parole della costituzione del Vaticano II Gaudium et spes dicono l’atteggiamento di fondo nel quale vogliamo situarci, sentendoci parte di questa città, solidali con tutti quelli che ci vivono, con i loro sogni, le loro speranze, le loro attese e le loro delusioni e tribolazioni.
Non ci dimentichiamo, peraltro, di ciò che abbiamo sentito dire dall’apostolo Paolo, nella sua lettera ai Filippesi (cf. 3,17 – 4,1 II lettura): che «la nostra cittadinanza… è nei cieli» (v. 20); che in questa città, come in qualsiasi altra città o paese, un cristiano si sentirà sempre pellegrino, “parrocchiano”, se diamo a questa parola il suo significato originario: “forestiero di passaggio” o, se vogliamo, forestiero che risiede provvisoriamente in una città, perché sa che la sua residenza, in questo mondo, non sarà mai quella definitiva.

Come dice un antico testo cristiano, la Lettera a Diogneto, i cristiani «abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera» (c. 5).
Come cristiani, siamo e resteremo sempre in una condizione di esodo. È questa la seconda immagine, sulla quale mi fermo un momento. Abbiamo sentito questa parola nel vangelo (cf. Lc 9,28b-36): Mosè ed Elia appaiono accanto a Gesù trasfigurato, durante la notte passata in preghiera, e «parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme» (v. 31).
Questa parola, qui, certamente allude alla morte, o meglio alla Pasqua di Gesù. Ma la Pasqua di Gesù sarà il compimento dell’esodo vissuto tanto tempo prima dal popolo di Israele: quando Dio si è fatto carico di un popolo di schiavi e, facendolo uscire dalla condizione di schiavitù, ne ha fatto un popolo di figli, un popolo di donne e uomini liberi, che hanno accolto l’alleanza con Dio come criterio di una vita vissuta in pienezza di benedizione.
Il senso ultimo di ciò che Dio aveva incominciato a fare nell’esodo di Israele, si è manifestato in Gesù, il Figlio eletto: in lui l’esodo si è compiuto perfettamente, perché in lui Dio ha trovato il Figlio che risponde pienamente, nella libertà dell’amore, al progetto di salvezza e di vita che Dio ha per l’uomo e per il mondo.
Per questo, Dio continua a invitare ogni uomo e donna a fare il suo esodo verso la vita piena, verso la libertà, la gioia, la pace, la speranza che “non delude”, mettendosi sempre di nuovo in cammino dietro a Gesù, ascoltando lui (cf. v. 35), accogliendo la sua salvezza, per dare compimento a ogni desiderio di vita piena, che portiamo nel cuore: e collaborando così, proprio come donne e uomini dell’esodo, come Chiesa che vive il pellegrinaggio della speranza, al bene della città nella quale viviamo.ì
Penso senz’altro alla visita pastorale come a un’occasione rinnovata per accogliere sempre da capo, insieme, l’invito che viene da Dio, nostro Padre: ascoltare il suo Figlio, camminare sulla sua via, accogliere lietamente il suo Vangelo, trovare in Lui le ragioni della nostra speranza e anche di ciò che, come cittadini tra altri cittadini, sentiamo di poter offrire, come comunità cristiana, a questa città – accogliendo anche, con grande disponibilità, ciò che la città, a sua volta, ci può offrire.

Ci conforta sapere che anche a noi Dio continua a dare l’assicurazione che diede un giorno all’apostolo Paolo, nei primi tempi del suo ministero apostolico a Corinto: «Non aver paura; continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male: in questa città io ho un popolo numeroso» (At 18,9-10).
Corinto era una città molto più grande di Crema; e la comunità cristiana che Paolo vi poté fondare aveva forse le dimensioni delle parrocchie più piccole della nostra città – le dimensioni di Vergonzana, o di Santa Maria dei Mosi…
Eppure: «In questa città io ho un popolo numeroso»! Questa assicurazione, che Dio fa a Paolo, mi sembra molto vicina alla promessa di Dio ad Abramo (cf. Gen 15,5-12.17-18: I lettura): una promessa che ha le dimensioni del cielo stellato – un cielo stellato che noi purtroppo, con tutta la nostra illuminazione artificiale, non siamo più in grado di contemplare, ma che doveva lasciare Abramo a bocca aperta… E doveva fargli misurare la sproporzione inaudita tra ciò che Dio gli prometteva, e ciò che Abramo poteva misurare con i suoi occhi.
Questa del cielo stellato è la terza immagine che vorrei richiamare. Abramo non aveva davanti a sé un futuro: non aveva figli, non aveva una discendenza – ciò che, per gli uomini del suo tempo, era l’unica forma di futuro pensabile – né, umanamente parlando, poteva pensare di averne, essendo lui e la moglie Sara molto avanti negli anni.
Eppure, è proprio questo futuro, che Dio gli assicura, facendogli contemplare il cielo riempito di stelle. A questo futuro, carico della promessa di Dio, Abramo si orienta nel gesto radicale della fede: «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (v. 6). È importantissima, questa frase, nella quale per la prima volta, nella Bibbia, si parla esplicitamente di fede: perché è appunto nella fede che il nostro presente si lascia trasfigurare, è nella fede che possiamo accogliere la promessa di Dio, anche e soprattutto quando ci sembra così lontana da ciò che adesso riusciamo a vedere.
Quando Paolo scrive ai Romani e manifesta loro il suo desiderio di conoscerli, di visitarli, dice: «Desidero… ardentemente vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale, perché ne siate fortificati, o meglio, per essere in mezzo a voi confortato mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io» (Rm 1,11-12).
È ciò che anch’io desidero vivere, nella visita pastorale: comunicare, se ci riesco, qualche dono spirituale; soprattutto, essere in mezzo a voi confortato mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io; per aprirci insieme alla promessa di Dio, che ci invita a perseverare lietamente nella nostra testimonianza evangelica, perché, quali che siano le nostre opinioni o le nostre statistiche, Lui ha «un popolo numeroso, in questa città».

O Dio, noi ti ringraziamo per questa città
e per tutti i nostri paesi dove abitiamo come cristiani.
Noi viviamo qui come stranieri e pellegrini,
perché sappiamo che la nostra cittadinanza vera
è nei cieli, nella gloria del Figlio tuo risorto.
Insegnaci ad ascoltare sempre Lui,
e a seguirlo senza paure nel suo esodo pasquale.
Orienta il nostro sguardo
verso il cielo stellato della tua promessa,
e rafforza la nostra fede in te,
che chiedi a ciascuno di noi e alle nostre comunità
di continuare a essere, in questo mondo e in questa città,
testimoni della speranza che non delude. Amen.