Palazzo Pignano, 31 ottobre 2025

Funerali di don Gian Benedetto Tommaseo

Il vescovo Daniele ha presieduto venerdì 31 ottobre 2025, nella Pieve di Palazzo Pignano, i funerali di don Gian Benedetto Tommaseo, parroco emerito di Palazzo Pignano e di Cascine Gandini e Capri, morto a Casaletto Ceredano il 29 ottobre precedente, all’età di 80 anni. Riportiamo di seguito il saluto iniziale e l’omelia del vescovo.

 

Saluto all’inizio della celebrazione

Ci troviamo qui, in questa bella Pieve che don Benedetto ha tanto amato e curato, per dargli l’ultimo saluto e affidarlo a Dio. Lo facciamo in quest’ora, mentre mentre la Chiesa si prepara a entrare nella Solennità di tutti i Santi: a contemplare, cioè, il nostro destino, ciò per cui siamo stati creati e salvati, ossia la pienezza della vita nella comunione con Dio, partecipando, per virtù dello Spirito Santo, della gloria che il Signore Gesù ci ha acquistato nella sua Pasqua di morte e risurrezione.
Nella fiducia che si aprono per don Benedetto le porte del Paradiso, preghiamo per questo nostro fratello e prete, perché sia accolto nella misericordia di Dio, gli sia cancellata ogni eredità di peccato, sia avvolto nella luce e nella pace dei santi.
Siamo vicini nel lutto ai famigliari e parenti, in particolare i fratelli e sorelle Paolo, Maria Teresa e Angela, e a tutti coloro che hanno beneficiato del ministero di don Benedetto: il Seminario, la scuola Dante Alighieri / Manziana, gli scout, le parrocchie di Credera e di Bottaiano e, in particolare, di Palazzo Pignano e di Cascine Gandini e Capri, che ha servito con amore e impegno per tanti anni.
La parrocchia di Casaletto Ceredano, dove don Benedetto era stato cappellano per un anno, di ritorno dalla sua esperienza missionaria a Ishiara, in Kenya (esperienza nella quale si era immerso profondamente, e che dovette interrompere con molto dispiacere), lo ha accolto di nuovo con gioia negli ultimi anni della sua vita, segnati dalle malattie che si erano accentuate con la pandemia del 2020, e gli è stata molto vicina.
A tutti vada la riconoscenza mia, del presbiterio diocesano, della diocesi tutta. Dal cielo, don Benedetto preghi per noi, per la nostra Chiesa, per il dono di nuovi sacerdoti, e perché la nostra risposta al dono di amore di Dio sia sempre piena e generosa.

 

Omelia

Nelle righe che precedono immediatamente il passo della lettera ai Romani che abbiamo ascoltato come prima lettura (cf. Rm 9,1-5), Paolo canta la certezza del credente di essere inseparabilmente unito all’amore di Dio in Cristo Gesù:

Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore (8,36-39).

«Né morte né vita…»: nulla, cioè, assolutamente nulla potrà mai separarci da questo amore indefettibile, eterno, che ci è stato donato da Gesù Cristo, morto e risorto.
Questa è la nostra convinzione di credenti e, in fondo, non ci sarebbe altro da aggiungere. Anche la celebrazione cristiana del mistero della morte, quella che stiamo vivendo qui, per don Benedetto, trova in queste parole tutto il suo senso fondamentale.
Sappiamo nella fede che la morte non ci separa da un amore che la Pasqua del Signore Gesù ci ha rivelato essere più forte della morte stessa: e se questo non toglie del tutto il dolore per i legami terreni che la morte spezza, ci apre però alla fiducia che, come diremo tra poco, a quanti si affidano a Dio «la vita non è tolta, ma trasformata» nella pienezza della vita di Dio.
Però la riflessione di Paolo continua; e continua proprio con le parole che abbiamo ascoltato oggi, e con le quali si apre una seconda parte della lettera ai Romani, lunga quasi quanto la prima. Perché a Paolo preme di mostrare che ciò che Dio ha fatto per noi in Cristo non è solo una bella teoria, non è qualcosa di astratto: è qualcosa che si può leggere da una parte nella storia e, dall’altra, nella vita della comunità cristiana.
La storia è quella nella quale Dio ha coinvolto in un primo tempo il popolo di Israele e, in un secondo tempo, tutti gli altri popoli, le genti: non in alternativa, ma in complementarietà, di modo che l’uno non può stare senza l’altro, secondo il progetto di Dio. La comunità cristiana è quella che Paolo descriverà negli ultimi capitoli della lettera: una comunità nella quale si cerca di fare ciò che Dio per primo ha fatto. Come Lui ha accolto tutti nell’abbraccio della sua misericordia (cf. 11,32), così la comunità cristiana è una comunità accogliente, capace di fare spazio alla diversità delle persone, delle loro storie e tradizioni, e dei doni che Dio continua a fare (cf. 15,7).
Tutto questo ci dà una chiave di lettura anche della vita e del ministero di don Benedetto: in linea generale, perché il ministero di un prete è precisamente al servizio di ciò che Dio opera nella storia delle persone e nella vita delle comunità cristiane; e sicuramente don Benedetto si è speso molto, in tutte le diverse fasi del suo ministero, da prete capace e generoso, qual era.

Ma vorrei sottolineare due tratti particolari del suo ministero che mi hanno colpito, e che colgo dalle letture di questa Messa. Il primo è quello della solidarietà: ne parla Paolo perché, mentre incomincia a interrogarsi sul “mistero” per il quale il suo popolo, il popolo di Israele, per la grande maggioranza ha rifiutato Gesù e il vangelo, si dice però anche solidale con questo popolo: «Vorrei… essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli…» (9,3).
Mi sembra di aver avvertito in don Benedetto uno stile analogo di solidarietà, di sentirsi “dalla parte” della gente, delle comunità che gli sono state affidate e che, infatti, gli hanno sempre voluto molto bene, perché sentivano che era loro vicino; ed era loro vicino – ed è la seconda cosa che vorrei sottolineare – nel far entrare il vangelo nella vita quotidiana.
Ce lo ricorda il vangelo che abbiamo ascoltato. Ci parla di Gesù che entra nella casa di uno dei capi dei farisei per pranzare (cf. Lc 14,1): un tratto della fisionomia di Gesù, questo della convivialità, sottolineato da tutti i vangeli, ma da Luca in modo speciale. E questo è stato, certamente, un tratto della personalità anche di don Benedetto: anche lui amava stare con gli altri, amava stare con gli amici, amava la condivisione della tavola appunto come un luogo “evangelico”, un luogo in cui era possibile fare quel che faceva Gesù.
E, sempre nel vangelo, mi colpisce il modo in cui Gesù giustifica la sua scelta di guarire un malato in giorno di sabato. Non fa discorsi teorici, non avvia discussioni sull’interpretazione dei comandamenti; si richiama a un riflesso “normale”, istintivo: «Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà fuori subito in giorno di sabato?» (v. 5).
Non c’è bisogno di andare tanto lontano, non c’è bisogno di fare studi particolari, per provare a intuire cosa c’è nel cuore di Dio, per sentirsi in sintonia con il suo desiderio di pienezza di vita e di salvezza per l’uomo: basta guardare con verità e profondità dentro di sé e dentro la vita delle persone.
Mi sembra che don Benedetto avesse questo intuito profondo, questo “senso del vangelo” nelle pieghe della vita delle persone: e anche per questo sapeva farsi amare e apprezzare dalla sua gente.

Per tutto questo – e per molto altro, che voi che avete conosciuto don Benedetto da prima e ben più a lungo di me saprete ritrovare nei vostri ricordi – noi rendiamo grazie a Dio: e gli affidiamo nella preghiera e nel suffragio questo nostro fratello nella fede e presbitero della nostra Chiesa, perché gli doni la ricompensa promessa da Gesù ai servi fedeli del suo popolo.