14 settembre 2023 - Basilica di S. Maria della Croce

Festa dell’Esaltazione della Croce

Riportiamo l’omelia tenuta dal vescovo Daniele nella Basilica di S. Maria della Croce il 14 settembre 2023, in occasione della Festa dell’Esaltazione della Croce.

 

C’è una bella e anche famosa poesia di John Donne, poeta inglese del Seicento, che mi è capitato di citare in qualche occasione soprattutto durante i mesi più difficili della pandemia Covid-19, nella primavera del 2020. Dice così:

Nessun uomo è un’isola
Completo in se stesso
Ogni uomo è parte della terra
Una parte del tutto
Se una zolla è portata via dal mare
L’Europa risulta essere più piccola
Come se fosse un promontorio
Come se fosse una proprietà di amici tuoi
Come se fosse tua
La morte di ciascun uomo mi sminuisce
Perché faccio parte del genere umano
E perciò non chiederti
Per chi suoni la campana
Suona per te

Ogni morte, dunque, secondo il poeta, mi riguarda: «la morte di ogni uomo mi sminuisce / perché faccio parte del genere umano», e dunque «non chiederti / per chi suoni la campana [si intende la campana a morto, quella che specialmente nei paesi annuncia la morte di una persona] / Suona per te».
È una bella idea, senz’altro. E però, chiediamoci: è proprio così? Non dovremmo riconoscere, piuttosto, che più o meno consapevolmente, noi facciamo delle “classifiche”, anche riguardo a chi muore?
La cosa è comprensibile, naturalmente: la morte di persone che ci sono care, la morte che incide sui nostri affetti, sulle nostre amicizie, che mi strappa via la persona amata… Questa morte è lacerante e mi segna in profondità, evidentemente.
Ma pensiamo alla morte, alle morti, le cui notizie ci arrivano ogni giorno dai mezzi di comunicazione: ci addolorano, credo, le notizie di chi muore vittima della violenza (come non pensare, in questa basilica, ai “femminicidi”, purtroppo così frequenti…); dei giovani che muoiono negli incidenti; riusciamo a sentire – spero che almeno noi credenti riusciamo a sentirlo, perché a volte viene da dubitarne… – dolore per chi muore attraversando mari e deserti in ricerca di una vita migliore (e spesso, com’è successo ieri, sono anche bambini o bambine di pochi mesi); ci addolorano le migliaia di vittime di terremoti, inondazioni, calamità naturali, come quelle che hanno colpito Marocco e Libia nei giorni scorsi…
Ma chiediamoci ancora: e la morte di chi “se la cerca”? La morte di chi si droga? Di chi si butta in giochi rischiosissimi, magari mettendo a rischio la vita propria e altrui? La morte di un carcerato, di un delinquente, di un assassino, di un terrorista…?
Dobbiamo avere il coraggio di guardare in noi stessi, di chiederci: che effetto ci fanno, queste morti, queste ultime, alle quali ho accennato? Siamo in grado di “compatire” chi muore così? Perché, se vogliamo guardare con verità alla croce di Cristo, è lì che dobbiamo arrivare.
Cristo Gesù, «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,6-8). Così abbiamo sentito, nel testo tratto dalla lettera di Paolo ai Filippesi.
Tralasciamo il resto, fermiamoci sull’ultima frase: l’abbassamento del Figlio di Dio giunge fino ad assumere la morte – e dunque, certo, sentiamo che Dio, nel suo Figlio Gesù, si è avvicinato alla mortalità dell’uomo, al fatto che si invecchia, ci si ammala, ci sono catastrofi e incidenti, c’è chi cade vittima di violenza, di sopraffazione, di indifferenza…ì
E certamente il Figlio di Dio è lì, è vicino a ogni essere umano nella sua finitudine, nella sua mortalità. Ma il testo aggiunge: «… a una morte di croce». La morte di croce non è una morte qualsiasi: e non solo per la sofferenza che la accompagna, ma perché, nel mondo romano, era la morte “riservata” a quella che chiameremmo “la feccia dell’umanità”. Era la morte riservata agli schiavi ribelli, ai delinquenti; la morte per la quale c’è il rischio di non sentire nessuna compassione, c’è addirittura il rischio di pensare: “se l’è meritata, una morte così; tanto meglio, se un essere così è stato tolto dalla faccia della terra…”.
Certamente qualcuno avrà pensato così di Gesù, vedendolo crocifisso in mezzo a due delinquenti. E se vogliamo capire fino a dove è arrivato l’abbassamento del Figlio di Dio, a questo dobbiamo pensare: il Figlio di Dio ha abbracciato non solo la morte, la nostra condizione mortale; no, ha abbracciato la morte dei peggiori tra gli uomini, la morte di quelli che nessuno ama e nessuno compiange.
È lì che tocchiamo la differenza tra noi e Dio. Noi facciamo fatica a misurare con verità tutto l’abbassamento del Figlio di Dio; facciamo fatica a scendere così in basso, anche solo col nostro compatimento, con una carità capace di abbracciare davvero tutto, fino in fondo.
Meno male che ci ha pensato Dio, nel suo Figlio Gesù, ad arrivare così in fondo. La croce ci parla di un amore capace di abbracciare la nostra condizione, di aprire a tutti noi la porta della salvezza, del riscatto, della speranza e della vita piena… Ma non dimentichiamo che questo abbraccio è andato molto, molto più a fondo di quanto noi pensiamo: fino a raggiungere ciò che è meno amabile, meno stimabile, meno desiderabile… Dio, certo, nella croce del suo Figlio è vicino a tutte le vittime innocenti: sul Calvario, però, Gesù era vicino a dei veri delinquenti!
La contemplazione della Croce apra il nostro cuore alla riconoscenza, perché vi scorgiamo la rivelazione dell’amore del Padre: ma apra il nostro sguardo interiore rendendolo capace di scorgere fin dove è arrivato l’amore di Dio, fin dove arriva… E ci aiuti a fare qualche passo in quella direzione, quella di un amore che vuole abbracciare anche chi è più lontano, anche chi è meno amabile, per aprire davvero a tutti le porte della vita.