Sabato 14 settembre 2024 il vescovo Daniele, nella Basilica di S. Maria della Croce, ha presieduto la celebrazione dell’Eucaristia nella festa dell’Esaltazione della Croce. Riportiamo di seguito l’omelia (basata sulle letture bibliche della XXIV domenica del tempo ordinario: Is 50,5-9a; Salmo 115/114; Gc 2,14-18; Mc 8,27-35)
Il problema di Pietro (e degli altri discepoli con lui) – problema che spesso è anche il nostro problema di discepoli attuali di Gesù – si può riassumere utilizzando la formula che abbiamo sentito dalle parole della lettera di Giacomo nella seconda lettura: «la fede, se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta» (Gc 2,17).
Pietro ha formulato in modo corretto le parole della fede. Rispondendo alla domanda di Gesù, non si è limitato a riferire le opinioni della gente, ma ha osato dire ciò che il suo cuore sentiva in profondità, anche se probabilmente in modo confuso: «Tu sei il Cristo» (Mc 8,29).
Che si tratti di una professione di fede, ce lo conferma il parallelo del vangelo di Matteo, dove Gesù commenta la risposta di Pietro dicendo che questa risposta non viene da «carne e sangue» (cioè dalle risorse umane), ma da una rivelazione del Padre (cf. Mt 16,17); il che significa, appunto, che si tratta di una risposta di fede, resa possibile dall’azione di Dio stesso.
Eppure, subito dopo, questa fede si blocca, non va avanti: messo di fronte al cammino che Gesù prospetta per sé – il cammino della Pasqua – Pietro si mostra incapace di lasciar vivere e crescere in sé quella fede. Non ci si aspettava, certo, che tutto in lui fosse già perfetto e compiuto: però, sì, la disponibilità a un cammino e non, invece, il mettersi in mezzo, non solo al cammino della propria fede, ma addirittura al cammino di Gesù, e volerlo impedire, bloccare. In questo senso la fede di Pietro è vera, ma morta o, se vogliamo, a rischio di morte: come un pianta che è fiorita, ma di cui, poi, non ci si prende più cura; finirà per seccare, e non porterà mai frutto.
E la cura indicata da Gesù è energica, estremamente esigente; la indica a Pietro, imponendogli di andare “dietro” a lui, anziché essergli di ostacolo; ma poi la indica a tutti: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,34-35).
Non dobbiamo nasconderci la durezza di questa esigenza. In particolare, «prendere la croce» significa entrare nella posizione di chi è stato condannato alla morte di croce (dunque, si suppone, un delinquente, reietto dalla società) e si incammina verso il luogo della crocifissione portando lui stesso lo strumento del supplizio.
Siamo davanti a questo paradosso, dunque: perché la fede viva, bisogna accettare di morire! Di morire a sé stessi, in primo luogo; ad ogni compiacimento, ad ogni tentativo di “salvare sé stessi” (cf. v. 35) con le risorse umane, mettendosi al riparo da tutto ciò che sentiamo minacciare la nostra vita. E poi, forse, addirittura accettare di rinunciare alla propria vita, se la verità della fede e dell’andare dietro a Gesù lo richiede.
È davvero possibile accettare un’esigenza così dura? Tutto il racconto di Marco punta a dire: sì, è possibile; certo, però, non facendo affidamento sulle proprie forze.
Probabilmente, Marco scrive il suo vangelo per la comunità cristiana di Roma, quando questa aveva già sperimentato la persecuzione, e qualcuno aveva affrontato la morte, ma altri, forse, non ce l’avevano fatta, e avevano rinnegato Gesù e la propria fede.
Soprattutto a questi, a chi non era stato capace di prendere la croce fino in fondo, e aveva rinnegato Gesù durante le persecuzioni, Marco racconta la vicenda dei primi discepoli di Gesù: e fa vedere che neppure per loro è stata una passeggiata. Pietro, come abbiamo sentito proprio questa sera, mostra subito di non capire le cose; poi farà lo spavaldo, prima della passione dirà a Gesù: non ti rinnegherò mai, darò la mia vita per te… salvo, poco dopo rinnegarlo non una ma due volte (cf. Mc 14,28-31.66-72). Nonostante questo, però, il Signore a riaperto a Pietro e agli altri discepoli la via del discepolato, proprio seguendo lui, fino in fondo, la sua strada di croce e risurrezione.
Resta il fatto che questa strada è impegnativa. E allora, per concludere, provo a suggerire due percorsi, due passi che non sono ancora tutta la via della croce ma che – certo sempre con l’aiuto di Dio – possono incominciare a farci camminare in essa.
Rinnegare davvero noi stessi non è facile. Possiamo chiedere al Signore la grazia di saper almeno dimenticare noi stessi. È una condizione che qualche volta sperimentiamo: quando siamo molto assorbiti in un’attività che ci impegna totalmente, al punto che non badiamo più di tanto alla stanchezza, a mangiare e bere, a riposarci… Pensiamo alla condizione dell’artista assorbito a tal punto nella creazione di un’opera d’arte da non pensare a nient’altro, e men che meno a sé stesso.
Potremmo chiedere a Dio di farci sperimentare, almeno qualche volta, questa condizione: soprattutto quando prenderci cura dell’altro, o degli altri, mette un po’ in parentesi il nostro io invadente, per vivere un gesto di vera dedizione, di servizio, di carità… Per stare dietro a qualcosa o soprattutto a qualcuno che ha bisogno di noi. Quello “stare dietro a lui”, che Gesù impone a Pietro ma anche a tutti, lo potremmo vivere anche così: “stando dietro” – come diciamo anche nel nostro linguaggio – a chi fa appello alla nostra attenzione, alla nostra cura, alla nostra carità.
“Stando dietro” soprattutto a chi è nel bisogno, cercando così di dimenticarci un po’ di noi stessi, impariamo poco alla volta a percorre la via del dono pieno di noi stessi, la via di quella croce che Gesù ha abbracciato per noi e che ci chiede di assumere, se ci teniamo a “salvare la nostra vita”, e se vogliamo che la nostra fede non muoia, ma viva e produca frutti abbondanti di vita buona.