24 marzo 2024

Domenica delle Palme

Il vescovo Daniele ha presieduto la solenne celebrazione della Domenica delle Palme e della Passione del Signore, domenica 24 marzo 2024, nella Cattedrale di Crema. Riportiamo di seguito l’omelia tenuta dopo la lettura della Passione secondo Marco.

La proclamazione di Gesù come Figlio di Dio è attesa fin dalla prima riga del vangelo di Marco, che si apre con questo titolo: «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1). Però, poi, questa proclamazione si fa aspettare a lungo.
Al momento del Battesimo al Giordano, la voce del Padre che dice: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (1,11) è rivolta solo a Gesù, non agli altri presenti. Sul monte Tabor, nel momento della trasfigurazione, i tre discepoli che Gesù ha preso con sé, Pietro, Giacomo e Giovanni, sentono la voce di Dio che annuncia: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (9,7): ma a questi discepoli Gesù impone poi il silenzio (cf. 9,9-10); e questa stessa imposizione di silenzio compare molte altre volte, nel corso del vangelo.
La cosa strana è che il silenzio su Gesù e sulla sua identità viene imposto soprattutto dopo i miracoli, le guarigioni, gli esorcismi… insomma, dopo quei gesti che meglio di tutti dovrebbero appunto manifestare chi è davvero Gesù. E invece, niente, Gesù impone il silenzio, o comunque corregge, o limita, anche le affermazioni in sé giuste, esatte: come quando Pietro professa che Gesù è il Cristo, ma subito dopo si sente dare da Gesù del “satana”, perché mostra di non aver capito niente di ciò che significa, per Gesù, essere il Cristo (cf. 8,27-33). E così ci si continua a chiedere: «Chi è costui, chi è in verità Gesù di Nazaret?» (cf. Mc 4,41).
Bisogna arrivare al racconto di oggi, all’ora della passione, perché la domanda su Gesù trovi una risposta: e bisogna arrivare al momento della morte di croce, perché qualcuno, «avendolo visto spirare in quel modo, [dica]: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (15,39).
È paradossale che a dire questo non sia nessuno dei discepoli di Gesù (sono scappati via tutti, come abbiamo sentito), e neppure nessuna delle autorità religiose di Israele (che hanno cercato la morte di Gesù): a proclamare l’identità di Gesù è un pagano, un militare, il centurione che comanda la pattuglia di soldati incaricata dell’esecuzione. È come uno schiaffo, dato in faccia a quelli che si professano religiosi, e anche a quelli che si definiscono discepoli di Gesù: di questi, uno ha tradito, un altro ha rinnegato, tutti sono scappati via…
Eppure, la proclamazione del centurione è per loro, è per noi: perché, se davvero quest’uomo è Figlio di Dio, allora si può sperare in lui; se è Figlio di Dio, si può credere alla verità di ciò che è venuto a portare, l’annuncio del Regno di Dio, che è misericordia, pace, perdono concesso ai peccatori (a partire da chi tradisce, rinnega, fugge via…), promessa di un mondo più giusto e fraterno, attesa di vita eterna.
Se quest’uomo è Figlio di Dio, si può credere alla promessa che ha fatto ai suoi discepoli, proprio nel momento in cui annunciava la loro fuga, la loro diserzione: «Dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea» (14,28).
Sì, questa speranza è anche per noi: è la speranza di un cammino che si riapre, di un futuro che si dischiude, al di là di ogni nostra rinuncia, di ogni stanchezza, persino di ogni tradimento. A un patto, però: di non allontanarci dalla croce, di non avere paura di questo passaggio estremo, che è il passaggio dell’affidamento a Dio, del dono di sé sempre e comunque, della rinuncia a salvare sé stessi scegliendo vie di comodo o cedendo alla menzogna o praticando violenza, ingiustizia, inganno, sopraffazione e cose simili.
Se davvero quest’uomo, Gesù di Nazaret, è Figlio di Dio, lo scopriamo solo stando sotto la sua croce e raccogliendo solo da lui ogni speranza per il nostro futuro e la nostra salvezza: «Dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea».