2 novembre 2023 - Cattedrale di Crema

Commemorazione dei fedeli defunti

In un’epoca come la nostra, nella quale le cose diventano rapidamente – come si dice – “obsolete”, cioè passate, non più adeguate, e prontamente rimpiazzate da altre cose “nuove”, che ancor già rapidamente diventano vecchie, ecco, in un contesto così è difficile prendere veramente sul serio la promessa di Dio che abbiamo sentito risuonare nella seconda lettura: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5).
Ci sentiamo forse più vicini alle considerazioni spassionate del Qoelet, il misterioso autore di un libro molto strano, eccentrico rispetto agli altri libri della Bibbia, e che pure è stato accolto nelle Sacre Scritture. E il Qoelet, poco dopo aver introdotto il suo libro con le celebri parole: «Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità» (Qo 1,2), scrive appunto: «C’è forse qualcosa di cui si possa dire: / “Ecco, questa è una novità”? / Proprio questa è già avvenuta / nei secoli che ci hanno preceduto» (v. 10). E aggiunge, subito dopo: «Nessun ricordo resta degli antichi, / ma neppure di coloro che saranno / si conserverà memoria / presso quelli che verranno in seguito» (v. 11).
Questa parola sconsolata porta dentro di sé, naturalmente, una verità incontestabile: anche la memoria grata e affettuosa che noi facciamo per i nostri cari defunti ha i suoi limiti.
Nessuno di noi, penso, è in grado di ricordare i propri antenati di qualche secolo addietro. Chi ha provato a far ricostruire la propria genealogia è riuscito ad arrivare forse fino al XVI secolo, fino cioè all’epoca nella quale si sono incominciati a tenere i registri dei Battesimi e degli altri sacramenti: ma è impossibile risalire più indietro e, in ogni caso, quelli che ritroviamo sono – tranne rarissime eccezioni – solo nomi, non volti, non fisionomie di persone intorno alle quali abbiamo qualche ricordo.
E anche per noi, ci avverte il Qoelet, sarà così: anche la nostra memoria, presto o tardi, è destinata a svanire, presso gli uomini.
Ciò significa che ciò che stiamo facendo, commemorando i nostri cari defunti, è inutile? Certo che no! Anzi, al contrario, si tratta semmai di allargare l’orizzonte: di vivere questa giornata guardando anche, almeno per un momento, a tutte le generazioni di fratelli e sorelle che, prima di noi, sono stati membri della comune famiglia umana.
Qualcuno ha provato anche a fare il conto, a chiedersi quanti esseri umani possono avere calpestato questa nostra terra, da quando esiste la nostra specie: più di cento miliardi, pare, secondo calcoli che possono essere solo approssimativi, ma che ci aiutano a sentirci parte di un’avventura molto più grande del piccolo tratto occupato da ciascuno di noi.
Non dobbiamo, per questo, sentirci insignificanti: la fede ci assicura che davanti a Dio ciascuno, in questa folla infinita, è stato conosciuto per nome, ciascuno è un “tu”, al quale Dio, in modi che conosciamo solo in minima parte, si è rivolto, per offrire senso alla sua vita e per chiamarla al pieno compimento.
E per ciascun membro di questa infinita folla è risuonata, in modi che neppure riusciamo a immaginare, la promessa di Dio: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». E forse ci vuole proprio la constatazione desolata del Qoelet, quando ricorda che non esistono vere novità, nell’orizzonte della nostra storia, per capire che appunto solo Dio è in grado di realizzare qualcosa di autenticamente nuovo, qualcosa che non sia solo l’imitazione, più o meno variegata, di ciò che è già successo nel passato.
E forse capiamo anche perché l’apertura di questa novità ci chiede di passare per la porta stretta della morte. È necessario questo passaggio, perché ciò che si dischiude al di là della morte – e che i cristiani chiamano risurrezione e vita eterna – sia appunto novità, e non ripetizione di qualcosa che già abbiamo vissuto.
È necessario rinascere. E i cristiani hanno imparato a chiamare l’ultimo giorno, e l’ultima ora di questa vita terrena, come il dies natalis, il giorno della nascita. È appunto in questo giorno, umanamente il giorno della morte, che di solito ricordiamo e celebriamo i santi: nel giorno in cui la fine dell’esistenza terrena diventa nascita alla vita piena e definitiva, alla novità che solo Dio è in grado di costruire.
La fede cristiana, la fede nel Dio dei viventi, che crea «cieli nuovi e terra nuova» (cf. Ap 21,1) e promette di fare nuove tutte le cose, ci aiuta a guardare nel modo giusto anche il presente: a relativizzare le tante novità che passano presto, senza però diventare cinici, e anzi riconoscendo che l’amore di Dio è capace di creare vere novità anche mentre restiamo in questa vita terrena.
Al tempo stesso, per noi e per i nostri defunti, e per l’infinita schiera di uomini e donne vissuti nel corso dei secoli e dei millenni, la fede apre l’attesa della beata speranza e della novità definitiva. Esse si dischiudono al di là della nostra morte e della durata di questo mondo, ma siamo convinti che la Pasqua del Signore ha inaugurato per sempre questa novità; e crediamo fermamente che la fedeltà di Dio ce ne renderà partecipi, noi e tutti coloro che ci hanno preceduto nel cammino della fede, e dormono il sonno della pace, in attesa della risurrezione e del mondo che verrà.