21 settembre 2024

Celebrazione per l’inizio dell’anno pastorale 2024-25

Nella Cattedrale di Crema, la sera di sabato 21 settembre 2024, il vescovo Daniele ha presieduto la liturgia della Parola nella quale ha iniziato ufficialmente l’anno pastorale 2024-25 e ha conferito il mandato a tutti gli operatori pastorali della Diocesi. Riportiamo di seguito l’omelia del vescovo.

Da lontano, nello spazio e nel tempo, ci arriva una lettera. Sant’Agostino dice, da qualche parte, che tutta la Bibbia, tutte le Scritture sacre, sono come una lettera, che Dio ci ha mandato. Noi, però, delimitiamo l’orizzonte, per metterci questa sera nella posizione di destinatari della lettera che, quasi duemila anni fa, Paolo di Tarso, «servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio» (Rm 1,1), da Corinto, probabilmente poco dopo la metà degli anni 50 del primo secolo, aveva mandato alla comunità cristiana di Roma.
Noi non corrispondiamo, nel tempo e nello spazio, a quella comunità, e cosa avrebbe da dirci, Paolo? C’è un punto interessante: Paolo non conosceva la comunità di Roma, non l’aveva fondata lui… Eppure le scrive, sa di questa comunità qualcosa che potrebbe dire, che ha detto anche a noi: salutandoci – le parole le ritrovate sul foglio contenuto nella busta che vi è stata consegnata – come «chiamati da Gesù Cristo… amati da Dio e santi per chiamata» (1,6-7).
Lasciamoci raggiungere, questa sera, anzitutto da questa consapevolezza: di essere amati da Dio, di aver ricevuto la grazia, il dono di essere discepoli del suo Figlio Gesù; di essere “santi” (questo è il nome con il quale spesso Paolo, e non solo, chiama i cristiani) non certo per le nostre capacità o bravura, ma per dono di Dio, che da sempre ci ha abbracciati nel suo sguardo di amore.
Il testo della lettera che abbiamo ascoltato e ricevuto poco fa finisce, per quanto riguarda il saluto iniziale, al v. 7 del primo capitolo. Ma vorrei farvi ascoltare anche il v. 8, che dice così: «Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché della vostra fede si parla nel mondo intero» (1,8).
Un po’ esagerato, se pensiamo a cosa doveva essere allora una comunità cristiana, sia pure in una città come Roma, capitale dell’Impero. Un po’ esagerato, se si parla della nostra Chiesa di Crema. E però attenti: perché preparando la visita ad limina (la periodica visita di noi vescovi al Papa e ai suoi collaboratori, che risale a fine gennaio di quest’anno) una volta di più mi sono reso conto che ci sono missionarie e missionari cremaschi in tutti i continenti (Antartide esclusa, per ora)!
Forse Paolo lo sa, che la Chiesa di Crema ha generato donne e uomini che sono partiti in tutte le direzioni, per annunciare il Vangelo. Forse per questo vuole condividere con noi, come ha fatto a suo tempo con i cristiani di Roma, il suo sogno missionario.
Perché il Paolo che scrive ai Romani, senza conoscere gran che di quella comunità, ha in mente uno scopo preciso: coinvolgere quei cristiani nel suo ultimo “sogno missionario”: lui, che per annunciare il vangelo ha percorso, a piedi o in nave, migliaia di chilometri, in una decina d’anni avventurosi – anni nei quali ha fatto tre volte naufragio, si è imbattuto in pericoli di ogni genere, ha lavorato con le sue mani per mantenersi e non gravare sulle comunità, ha sperimentato spesso «fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità» (cf. 1Cor 11,25-27) – ecco lui non ha quiete; ritiene che non ci sia più spazio di azione per lui in Oriente (cioè l’area che va grosso modo dal Medio Oriente alla Grecia compresa) e adesso punta all’Occidente: sogna di partire per annunciare il vangelo fino in Spagna (che rappresentava l’estremo confine occidentale del mondo allora conosciuto), e vuole per questo coinvolgere i Romani; vuole infiammarli del suo amore per il Signore Gesù, della sua convinzione che il vangelo è per tutti la salvezza promessa da Dio, e buttarsi ancora, con loro, nell’annuncio del vangelo (cf. Rm 15,23-24).
Qualcuno avrebbe detto che era un po’ pazzo (lo dice anche lui, in un momento di esasperazione, scrivendo ai Corinzi: cf. 2Cor 11,16 ss.). Paolo è pazzamente innamorato del vangelo; pazzamente convinto che il vangelo di Gesù Cristo sia il dono più grande che i cristiani possono fare al mondo. E nonostante tutte le fatiche, le difficoltà (comprese quelle che si trovano dentro le comunità cristiane, e che lo hanno fatto soffrire non poco); e nonostante anche i rifiuti sperimentati (nella lettera ai Romani dedica tre capitoli a cercare di capire perché proprio il suo popolo, il popolo di Israele, nella sua maggioranza, non ha accolto il vangelo: cf. Rm 9-11), ecco, nonostante tutto questo, Paolo ha uno sguardo ostinatamente fisso sul futuro di Dio, sulla speranza che si radica nell’opera di Dio.
«La speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). La speranza non delude, perché non parte da meccanismi di autoillusione.
Anzi, il punto di partenza concreto della speranza sono le tribolazioni: e noi «ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (5,4), quella speranza che appunto «non delude» e permette a Paolo, non solo di riversare sui Romani la sua certezza – la riprenderemo poi più avanti con il canto – che «né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (8,28-39); ma gli permette anche di sognare in grande, di guardare a un futuro ancora ricco di testimonianza del vangelo, e dove la vita delle comunità cristiane dà voce al sospiro, al desiderio dell’intera creazione, di sperimentare la pienezza della vita e della gloria di Dio (cf. 8,18-25).
A questa «speranza che non delude» ha fatto riferimento papa Francesco, nell’indire il Giubileo ordinario che aprirà nella prossima notte di Natale, e che anche nella nostra Chiesa apriremo il 29 dicembre prossimo. A questa speranza forte, lieta, anche “ostinata” – come quella di Abramo, che non a caso Paolo presenta come nostro padre nella fede, di una fede capace di «sperare contro ogni speranza» (4,18), di sperare ciò che sembra umanamente impossibile – ecco all’insegna di questa speranza vorrei che vivessimo l’anno pastorale che ci sta davanti, anno che include anche buona parte del tempo giubilare.
Vorrei che fosse un anno nel quale continuare a mettere mano a ciò che già ci siamo detti in questi anni scorsi (ho provato a ricapitolare le cose che mi sembrano più importanti nella lettera che riceverete alla fine della celebrazione), ma in questo deciso orizzonte di speranza evangelica, e sempre chiedendoci: dov’è per noi, oggi, qui, l’orizzonte della missione? Cosa possiamo fare, che cosa lo Spirito di Dio ci propone, ci chiede, per far risuonare ancora oggi la buona notizia, il vangelo di Gesù Cristo, e la parola di speranza per l’uomo e per il mondo, che porta con sé?
Per non lasciare la cosa troppo indeterminata, vi invito, quando avrò finito di parlare – cioè tra pochissimo – a riprendere in mano il foglio che contiene i due passi della lettera ai Romani che abbiamo ascoltato per primi; e, sull’altra facciata, a mettere per iscritto:

– un sogno grande di speranza: per la Chiesa, per il mondo, per noi stessi…

– un segno concreto di speranza, che ci piacerebbe vedere realizzato nel corso del Giubileo (anche papa Francesco, nella Bolla di indizione del Giubileo, parla di diversi possibili segni di speranza da attuare in questo anno);

– e poi una invocazione, una preghiera di speranza per persone o situazioni che ne hanno bisogno.

Poi rimettete il tutto nella busta… e vi dirò poi che fine farà.

Concludo riprendendo le parole di Paolo che ho scelto anche come conclusione della mia lettera per questo anno pastorale. Definiscono un augurio e un impegno che ci possono accompagnare nel tempo che ci sta davanti:
«Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera. Condividete le necessità dei santi; siate premurosi nell’ospitalità… Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti» (Rm 12,12-13.17-18).