19 settembre 2025

Celebrazione per l’avvio dell’anno pastorale 2025-26

Venerdì 19 settembre 2025 si è tenuta, nella chiesa di san Bernardino / auditorium Manenti, la celebrazione della Parola di avvio dell’anno pastorale 2025-26. Riportiamo di seguito l’omelia tenuta dal vescovo Daniele.

 

Mi ha molto colpito un’espressione usata qualche giorno fa da papa Leone, la “globalizzazione dell’impotenza”. Ha detto il papa:

La globalizzazione dell’indifferenza, che Papa Francesco denunciò, sembra oggi essersi mutata in una globalizzazione dell’impotenza. Davanti all’ingiustizia e al dolore innocente siamo più consapevoli, ma rischiamo di stare fermi, vinti dalla sensazione che non ci sia niente da fare. Invece no: la storia è salvata dagli umili, dai giusti, dai martiri, nei quali il bene risplende e l’autentica umanità resiste e si rinnova.

Mi sembra che questa espressione, “globalizzazione dell’impotenza” (l’ho ripresa anche alla fine della lettera che ho scritto in vista dell’anno pastorale che sta muovendo i primi passi), esprima bene un sentimento che ci prende di fronte all’aggrovigliarsi di tanti problemi, di situazioni piccole o grandi di crisi, che attraversano la nostra vita e la vita del mondo.

Il testo del profeta Geremia che abbiamo ascoltato e pregato insieme poco fa (Ger 14,1 – 15,3) è un esempio molto forte di come questa sensazione di crisi, di incertezza, possa travolgere anche la condizione del credente. Nella crisi che al tempo di Geremia il popolo di Dio sta attraversando – è in atto una carestia, ma questo è solo l’ultimo dei drammi, tutta la fase storica che quel popolo sta vivendo, tra la fine del settimo e l’inizio del sesto secolo avanti Cristo è drammatica, e si concluderà nel disastro della vittoria babilonese, con la conquista e la distruzione di Gerusalemme e del tempio, e la deportazione di una parte della popolazione in Babilonia – non solo Dio non fa niente per salvare il suo popolo; ma Lui stesso sembra essere il “nemico”, la crisi è crisi della relazione con Dio.
L’impotenza qui è davvero radicale, perché non si può neppure ricorrere a Dio: «Anche se digiuneranno, non ascolterò la loro supplica; se offriranno olocausti e sacrifici, non li gradirò, ma li distruggerò con la spada, la fame e la peste».
Geremia risponde richiamandosi alle parole che vanno dicendo i profeti, i quali annunciano: «Non vedrete la spada, non soffrirete la fame, ma vi
concederò una pace autentica in questo luogo»; ma anche questa parola si rivela menzognera, falsa promessa di pace e sicurezza, che Dio respinge.

Anche l’autore del salmo 77(76), con il quale abbiamo continuato il nostro ascolto della parola di Dio, attraversa una crisi nella quale gli sembra di non riconoscere più il volto di Dio che gli è stato insegnato: gli sembra che Dio non rispetti più le sue stesse promesse di bene, che non intervenga più, oggi, per salvare il suo popolo, come si racconta che abbia fatto in un passato ormai lontanissimo: «È mutata la destra dell’Altissimo»: questo è il pensiero tormentoso, che toglie il sonno all’autore del salmo.
Però questo credente non si ferma lì (naturalmente neppure Geremia si ferma al capitolo che abbiamo meditato: ma il suo libro comprende più di cinquanta capitoli, e non potevamo leggerlo tutto questa sera: ma affido questa lettura all’anno pastorale che vivremo, perché l’esperienza di questo vero e proprio “profeta della [e nella]) crisi” ci può essere di grande aiuto).
L’autore del salmo 77, dicevo, non si ferma lì: la sua meditazione nella preghiera ritorna all’evento di salvezza decisivo, l’esodo, nel quale Dio salvato il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto: e nella fede riconosce un «modo di fare» di Dio, che è come un lampo nell’oscurità: «Sul mare la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque, ma le tue orme non furono riconosciute».
Sì, c’è una presenza di Dio che salva e libera, ma questa presenza passa sulle acque del mare: mare che, nell’immaginario della Bibbia, rappresenta la minaccia, il caos primordiale, la crisi e il pericolo non solo occasionale, ma “esistenziale”.
Dio si muove su questo “terreno” particolare, ed è lì che bisogna imparare a riconoscerlo e persino a seguirlo. Certo, la Parola di Dio proclama che Dio è «una roccia eterna» (cf. Is 26,4); l’autore del salmo ha un visione più sfumata o, se vogliamo, meno idealistica: non è nelle certezze rocciose, non è nella stabilità di un terreno solido, che Dio ci viene incontro.
La sua via passa sul tumulto della storia, nella complessità e a volte nel caos che domina la vicenda nostra e nel mondo; ed è lì che bisogna provare a riconoscerlo, e sentirlo dire: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!»: con la parola che Gesù rivolge ai discepoli spaventati e dubbiosi, andando verso di loro mentre cammina, anche lui, sulle acque agitate del mare di Galilea.

Anche nei nostri progetti di vita di Chiesa noi, a volte, cerchiamo la soluzione, vorremmo avere tra le mani delle scelte sicure, delle vie che facilmente e rapidamente ci conducono alla meta.
Non è così: o, per lo meno, credo che nel tempo che viviamo le cose non stiano così. Dobbiamo fare i conti con l’incertezza, siamo anche noi – insieme con gli altri, compresi quelli che non si riconoscono nella nostra fede e non condividono l’adesione al Signore Gesù – in navigazione su un mare insicuro e a volte tempestoso.
Questo ci chiede alcuni atteggiamenti che credo importanti nella nostra vita di fede personale e di comunità cristiana: penso alla perseveranza nella preghiera, nella meditazione della Parola di Dio, nell’ascolto reciproco secondo uno stile di sinodalità, nell’ascolto attento anche delle persone e delle situazioni che stanno intorno a noi, vicine o lontane che siano…
Vorrei che entrassimo in questo anno pastorale con la consapevolezza che dobbiamo misurarci con l’incertezza, che non abbiamo soluzioni pronte e facili ai problemi che dobbiamo incontrare ogni giorno e neppure, ci mancherebbe, alle crisi mondiali.
E però possiamo avere fiducia in Dio, fiducia reciproca, coraggio e pazienza nel cercare ogni giorno il bene, senza perdere la gioia che ci viene donata dallo Spirito Santo, insieme con gli altri frutti che lo stesso Spirito riversa nei nostri cuori (cf. Gal 5,22).

Nella lettera che riceverete alla fine di questa celebrazione ho ricordato alcuni tratti della nostra vita di Chiesa diocesana che mi sembra importante portare avanti, partendo da ciò che papa Leone ha detto a noi vescovi italiani il 17 giugno scorso: la centralità di Gesù Cristo e del suo annuncio; la ricerca operosa della pace; l’attenzione all’uomo e alla sua dignità; lo stile del dialogo.
Vorrei che, come Chiesa diocesana, oltre a sostenere e far crescere secondo il vangelo la vita delle nostre comunità cristiane, ci mettessimo sempre più in ascolti di quegli “ambienti di vita” che riguardano l’esistenza di tutti, anche di quelli che non incrociamo nelle nostre parrocchie: ambiti come il lavoro, la vita sociale, la scuola, il mondo della salute e della malattia ecc.

Cercheremo di farlo, con l’aiuto di Dio, e senza perdere di vista la fiducia che, anche in questo nostro tempo tumultuoso, lui ci viene incontro e ci prende per mano, come ha fatto Gesù con Pietro, sul mare agitato nel quale rischiava di affondare per la sua poca fede.
La “globalizzazione dell’impotenza”, come ha detto papa Leone, non è l’ultima parola alla quale rassegnarci. Stiamo ancora vivendo l’Anno santo, all’insegna della “speranza che non delude”.
Lo stesso apostolo Paolo, alla fine della lettera ai Romani, ricorda ai suoi cristiani la necessità di “tenere viva la speranza” (cf. Rm 15,4).
Sì, non ci accada di spegnere la luce sulla speranza una volta concluso questo giubileo. Nelle pieghe della vita di ogni giorno, teniamola viva, questa speranza, cercando sempre il volto di Dio e la sua parola di salvezza.