Martedì 14 gennaio 2025 il vescovo Daniele ha presieduto la celebrazione dell’Eucaristia nella solennità della dedicazione della Cattedrale di Crema, con la partecipazione del clero e dei fedeli delle parrocchie della città di Crema. Riportiamo di seguito la sua omelia.
La costruzione del tempio di Gerusalemme non nasce da un comando o da una richiesta di Dio al popolo di Israele: è il re Davide, un migliaio d’anni prima di Cristo, a pensare che sia opportuno costruire un tempio dedicato al Dio di Israele (cf. 2Sam 7,1 ss. ), così come altri popoli avevano dei templi in onore delle rispettive divinità.
Di fronte all’iniziativa di Davide, però, Dio si oppone, almeno provvisoriamente: a Davide, che pensa di costruirGli una casa – il tempio, appunto, ritenuto “casa di Dio” in mezzo al popolo di Israele – Dio manderà a dire, attraverso il profeta Natan: non sarai tu a costruirmi una casa, ma io costruirò una casa per te (cf. 2Sam 7,11).
Il testo della Bibbia, in questo passo del secondo libro di Samuele che riporta la profezia di Natan, gioca sul doppio significato della parola “casa”: la casa come edificio, e la casa come “casato”, come discendenza. Dio annuncia a Davide la stabilità del suo regno e della sua discendenza, e in questo annuncio la tradizione ebraica ha visto la promessa del Messia, discendente di Davide, che poi i cristiani identificheranno in Gesù.
Già questo richiamo ci aiuta a capire qualcosa del vangelo che abbiamo ascoltato (cf. Gv 2,13-22). Fin dall’inizio, per così dire, c’è una contrapposizione tra una “casa di Dio” fatta di pietra, di legno, edificata dagli uomini; e una “casa di Dio” che è Lui stesso a costruire e a donare al suo popolo: una casa fatta di “pietre vive” (cf. 1Pt 2,4-5), una casa fatta di uomini, di persone, che con la loro vita diventano segno della presenza di Dio in mezzo all’umanità.
Questa doveva essere fin dall’inizio la vocazione del popolo di Israele, il senso della scelta che Dio aveva fatto in modo speciale per questo popolo: essere, in mezzo agli altri popoli, segno visibile della presenza di Dio in mezzo all’umanità, manifestazione dell’amicizia che da sempre Dio ha offerto e continua a offrire all’uomo.
Gesù rappresenta il compimento di questa vocazione, colui che realizza fino in fondo la chiamata fatta a quel popolo, Israele, dal quale egli proviene e per il quale egli è stato mandato da Dio. In fondo, il gesto “violento”, che Gesù compie nel tempio di Gerusalemme, è un richiamo a questa vocazione, e annuncia che essa si compie in lui, in Gesù – e si compirà in modo pieno con la sua Pasqua.
Però il tempio di Gerusalemme sarà costruito: dopo Davide, nel regno del suo figlio Salomone; e Dio, colui che non può essere racchiuso in nessun luogo, lo “abiterà” effettivamente, secondo la testimonianza delle Scritture (cf. 1Re 8,10-13.27-29).
E anche per i cristiani delle prime generazioni, la novità di Cristo non significa che il tempio di Gerusalemme, con le sue alterne vicende nella storia, perda completamente la sua funzione. Gli Atti degli apostoli attestano che la prima comunità cristiana, a Gerusalemme, ha continuato a frequentare regolarmente il tempio (cf. At 2,46; 3,1; 5,20-21.42; 21,26); non ha pensato che, essendoci ormai stato Gesù Cristo, il tempio si dovesse abbandonare.
Certo, i cristiani che non vivevano a Gerusalemme non frequentavano il tempio, ma questo era vero anche degli ebrei che non vivevano a Gerusalemme; e già all’epoca erano molti più gli ebrei che vivevano lontani da Gerusalemme, rispetto a quelli che risiedevano nella città santa o nella “Terra santa”.
Tutto questo mi porta a dire che non c’è necessariamente contraddizione fra il tempio materiale e quel “tempio nuovo”, che è lo stesso Gesù Cristo, morto e risorto, presenza definitiva di Dio nel mondo.
Il punto di congiunzione tra queste due realtà lo troviamo, credo, nella parola di Gesù che, mentre caccia fuori dal tempio venditori, cambiavalute ecc., chiama il tempio la «casa del Padre mio» (cf. Gv 2,16): come a dire che Gesù ha la coscienza molto forte del fatto che quell’edificio è davvero “casa di Dio” in mezzo agli uomini; e proprio questo spiega anche la sua reazione violenta davanti a un modo di stare in questa “casa” che la sfigura, ne deturpa il volto, la fa diventare «un mercato» o, come si dice negli altri vangeli, «una spelonca di ladri» (cf. Mc 11,17 e par.).
Insomma, la questione non sembra essere tanto l’opposizione fra tempio “materiale” e tempio fatto di persone quanto, invece, la questione di che cosa, o piuttosto, “chi” sta veramente al centro della nostra vita, dei nostri desideri, dei nostri interessi.
Per Gesù è chiarissimo: è Dio, il “Padre suo”. E per noi, di conseguenza, la questione diventa: in che modo siamo testimoni di ciò che sta a cuore a Gesù, ossia della sua relazione vivente con il “Padre suo”, relazione che è poi anche la radice della sua dedizione di amore “fino all’estremo” per quelli che il Padre gli ha dato (cf. Gv 13,1 ss.)?
Il segno visibile della nostra bella Cattedrale non è inutile, a questo riguardo: a patto, però, che diventi luogo frequentato da gente che in ogni cosa e sopra ogni cosa sa cercare Dio e sa lasciarsi guidare da Lui, grazie allo Spirito di Gesù morto e risorto, a testimoniarLo in mezzo agli uomini.
Perché la vocazione originaria di Israele rimane vera anche per noi, in virtù della nostra adesione a Gesù Cristo: essere in mezzo al mondo segno vivente del Dio che non smette di abitare nel cuore dell’umanità.
Per fare questo “ci serve” anche la nostra Cattedrale, ci servono anche le nostre chiese, qualche che sia il loro valore artistico o storico: ci servono, se sono per noi richiamo alla ricerca appassionata di Dio, Padre di Gesù e Padre nostro e di tutti; ci servono, se le abitiamo come ha fatto Gesù nel tempio, cercando in ogni cosa la gloria del Padre. Questa gloria è la pienezza di vita dell’uomo e del mondo: e sta anche a noi diventarne testimoni e servitori.
