25 dicembre 2024

Natale del Signore 2024: Messa del giorno

Riportiamo di seguito l’omelia che il vescovo Daniele ha tenuto in Cattedrale, nella Messa della giorno di Natale (25 dic. 2024)

 

Nelle letture bibliche di questa “Messa del giorno” di Natale domina – è evidente – il tema della “Parola”: è la chiave di volta del vangelo appena ascoltato, che è il Prologo del quarto vangelo, il vangelo di Giovanni (cf. Gv 1,1-18); è chiarissimo nelle parole iniziali della lettera agli Ebrei (le abbiamo ascoltate nella seconda lettura: cf. Eb 1,1-16); ma è presente anche nelle parole del libro di Isaia proposte nella prima lettura (cf. Is 52,7-10), dove tutto ruota intorno a parole che devono essere comunicate, a un annuncio di pace e di salvezza rivolto a una città in rovina.
A fronte di tutta questa insistenza sulla “parola” sta colui che è al centro del Natale, Gesù bambino: perché “Natale” (forse è il caso di ricordarlo) vuol dire “il giorno della nascita” (di qualcuno, evidentemente): e dunque noi oggi ricordiamo e celebriamo una nascita, la nascita di Gesù: quel Gesù che una frase del canto Adeste fideles (l’abbiamo cantato all’inizio della Messa) presenta con questa espressione, che io trovo meravigliosa: «Deum infantem, pannis involutum». “Pannis involutum” vuol dire “avvolto in fasce”, ed è una citazione precisa dell’annuncio dell’angelo ai pastori: «Troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,12).
Ma la prima metà dell’espressione è molto forte, e molto ardita: “Deum infantem”, e vuol dire: Dio bambino, ma più precisamente Dio “bambino che non parla”, perché il termine “infante” indica il bambino molto piccolo, che non è ancora in grado di parlare.
Questo, dunque, il paradosso: da una parte, la Parola, così come la intende la Bibbia, la Parola che si identifica con Dio stesso, la Parola che dal nulla fa esistere tutto ciò che è, la Parola che manifesta la Sapienza di Dio e la sua cura per il mondo, la Parola risuonata «molte volte e in diversi modi» nelle voci dei profeti e nella storia del popolo di Israele…
Dall’altra parte, un bambino che ancora non parla: e la sfida di riconoscere che questi due versanti sono una sola realtà, perché «la Parola si è fatta carne» (Gv 1,14), e Dio continua a essere un “Dio di parola”; anzi, proprio in quella Parola – muta, per ora – che è Gesù bambino Dio ci trasmette tutto di Sé: perché la fede riconosce in quel bambino il Figlio di Dio che (come ricorda la conclusione del vangelo di oggi, e come scrive anche l’autore della lettera agli Ebrei) è la “rivelazione”, la “spiegazione” definitiva di Dio (cf. Gv 1,18; Eb 1,2).

Quel bambino poi, certo, parlerà: i vangeli ci hanno tramandato le parole di Gesù, e alcune di queste parole ci sono arrivate anche al di fuori dei vangeli. Ma forse la prima riflessione che possiamo fare, contemplando il “Dio infante”, Dio che, deposto nella mangiatoia, non dice parole, è che tutta la vicenda di questo bambino è “Parola”; tutto in lui, non solo le parole che dirà, è Parola che dice qualcosa di definitivo su Dio, sull’uomo, sul mondo.
Dio parla attraverso il bambino che non sa ancora parlare, e parlerà attraverso l’ultimo silenzio di quell’uomo sulla Croce. Ci parla nelle parabole di Gesù o negli insegnamenti che rivolgeva alle folle, ma ci parla, eccome!, anche nei trent’anni della cosiddetta “vita nascosta” di Gesù a Nazaret; ci parla mettendoci davanti Gesù che passa notti solitarie in preghiera (anche se di quella preghiera non conosciamo una sillaba, o quasi), così come ci parla nei suoi colloqui con i discepoli o con altri interlocutori…
Per altro verso, se Gesù Cristo, fin da quando è “infante”, bambino ancora muto, e poi in tutta la sua vicenda, è la Parola definitiva di Dio per noi, non è che per questo Dio abbia smesso di parlarci.
Càpita, qualche volta, di pensare: ah, se Dio ci parlasse, mi parlasse… Se mi dicesse chiaramente che cosa vuole da me… Davvero pensiamo che Dio non ci parla? Gesù ha promesso ai discepoli il dono dello Spirito Santo, attraverso il quale la sua parola, la Parola di Dio che è Gesù, continua a risuonare: «lui [lo Spirito] vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,25).

E, nello Spirito, Dio continua a parlarci. Se ci ha parlato in quel bambino muto, posto nel presepe, non continua a parlare – per fare l’esempio più semplice – in tutti i bambini e certo, in modo particolare, in quelli che non hanno casa, non hanno cibo, non hanno cure, nascono e vivono in carcere o in un campo profughi, sotto le bombe, o comunque in condizioni disumane?
Se Dio ci ha parlato attraverso l’uomo muto, inchiodato alla croce, non continua a parlarci dalle situazioni di ingiustizia che poi generano conflitti e guerre, da tutti i luoghi privi di speranza, da tutte le povertà e miserie che ci sono nel mondo, e anche dalle oscurità, dalle fatiche, dalle angosce che possiamo portare nel nostro cuore? Se non ci parla da lì, da dove dovrebbe parlarci, quali parole dovrebbe usare per noi?
Poi, certo, Dio ci parla, eccome, anche nei tanti segni di speranza che pure ci sono nel mondo. Questi segni, o meglio le persone che per grazia di Dio sono capaci di porre segni di speranza, di portare frutti di pace, di giustizia, spesso hanno una voce debole, che quasi non riesce a emergere nel frastuono generale. Ma qui torniamo al “Deum infantem”, al Dio senza parola posto nella mangiatoia: la sua voce non si sente, ma in lui Dio parla, e parla in pienezza: e il problema, forse, è di trovare orecchie e cuori disponibili ad accogliere quella parola.
Se proviamo ad aprire sempre più noi stessi, il nostro cuore, la nostra vita, potremo sentire sempre meglio che Egli continua a parlarci; e potremo sentire sempre meglio la sua voce che risuona anche nel travaglio di questo nostro mondo, e ci invita a mettere in Lui la nostra fiducia – la nostra fede – e a fare quanto sta in noi perché la sua promessa di vita e salvezza per l’uomo e per il mondo giunga a compimento.