Veglia di preghiera per p. Gigi Maccalli – Omelia

Cattedrale di Crema, 17 novembre 2018

Da qualche parte, nella notte che avvolge la sorte di tanti nostri fratelli e sorelle prigionieri, sequestrati, ridotti al silenzio perché la loro parola non disturbi, o usati come scudi umani o come strumenti di pressione o di ricatto, da qualche parte, dicevo, qualcuno di loro canta inni a Dio: come Paolo e Sila in prigione a Filippi, secondo il racconto degli Atti che abbiamo ascoltato all’inizio di questo momento di preghiera (At 16,22-34).

Da qualche parte, nella notte, qualcuno di questi sequestrati canta, e tutti gli altri prigionieri stanno ad ascoltarli. Quelli che riescono a cantare – non necessariamente con la voce, il più delle volte, anzi, e probabilmente, solo nel cuore, e anche riuscendo, chissà come, a dormire… – lo fanno anche per tutti gli altri: per quelli che non ci riescono, che si sentono muti, angosciati non tanto per sé, quanto per le loro comunità, le loro famiglie, le Chiese e la gente che vorrebbero servire e aiutare, mentre sono ridotti all’impotenza…

Penso che tutti noi, in un momento o in un altro di questi sessanta giorni che già ci separano dal rapimento di padre Pierluigi, ci siamo chiesti: come starà vivendo questi giorni, questo tempo così lungo per noi, e probabilmente ancora di più per lui? Anche lui, in un modo o nell’altro, si unisce al canto notturno di chi è prigioniero nel nome del Signore. Un giorno, forse – il più presto possibile, ce lo auguriamo – ce lo racconterà lui stesso, e ci darà una testimonianza che potremo accostare a quelle dei missionari rapiti in Nigeria nel 2014, e di cui abbiamo ascoltato alcuni brani poco fa.

Forse ce lo racconterà lui stesso: se metto un «forse», non è per dubitare della sua liberazione, per la quale con fiducia stiamo pregando da due mesi a questa parte, e continueremo a pregare: è che, per quel pochissimo che ho potuto conoscere p. Gigi, in un breve incontro pochi giorni prima del suo rientro in missione, il 5 settembre scorso, e poi per alcuni suoi scritti che ho potuto rapidamente scorrere, ho avuto l’impressione che egli non ci tenga molto a parlare di sé. Ci parlerebbe piuttosto della sua gente, dei suoi cristiani, delle loro piccole e grandi storie quotidiane, dentro alle quali – tra le gioie e i dolori, quando si può operare e anche quando le mani sono legate e l’azione è impedita –  va crescendo il regno di Dio, per il quale Gesù ha donato se stesso.

Non credo, lo ripeto, che p. Gigi ci terrebbe a parlare solo di sé. Per questo, anche, ho proposto che il nostro cammino per le vie della città, e la preghiera che stiamo facendo qui in Cattedrale, non fossero dedicati soltanto a lui. Mi è sembrato doveroso, e anche ‘bello’ – come può essere ‘bello’ anche un gesto doloroso – ricordare le altre nostre sorelle e gli altri nostri fratelli prigionieri, sequestrati, ridotti al silenzio e all’impotenza. Di alcuni di loro abbiamo ricuperato i nomi, e li abbiamo scanditi lungo il nostro cammino; altri, probabilmente più di quanti non vorremmo, sono a noi sconosciuti. Le lampade, qui accese, li ricordano tutti: e vorrei che, fino a quando dovremo tenere appesi gli striscioni che chiedono la libertà di padre Gigi, nel suo nome sappiamo mettere anche tutti gli altri nomi, noti o ignoti.

Le nostre preghiere e i nostri canti, questa sera, sono per loro, mentre sappiamo che anche loro, in modo misterioso, pregano e cantano nella loro notte; e la loro preghiera e il loro canto sono anche per noi, perché anche noi siamo prigionieri bisognosi di sentire il canto della speranza. Siamo prigionieri della nostra mancanza di informazioni, noi che ci illudiamo, con le nostre tecnologie, di poter sapere istantaneamente tutto di tutti; siamo prigionieri della nostra impotenza, noi che confidiamo molto nei mezzi umani, salvo poi scoprire situazioni nelle quali essi sono del tutto inefficienti…

Siamo prigionieri, forse, soprattutto del fatto di non avere ben chiaro che cosa può valere il dono di una vita: di non sapere bene, insomma, per che cosa vale la pena vivere – e persino morire. Padre Gigi ce lo ha ricordato, ripartendo serenamente per la sua missione in settembre: senza tradire preoccupazioni (e penso che effettivamente non ne avesse, pur nella consapevolezza della situazione molto difficile del Niger attuale), col solo desiderio di ritrovarsi tra la sua gente, nella sua comunità, nella sua missione, alla quale ha scelto di donare tutto se stesso.

Vorrei che mentre pensiamo a lui, mentre preghiamo per lui – e per tutti gli altri che sono nella sua stessa situazione – sentissimo nel cuore la sua voce, la sua preghiera, il suo canto, preoccupato non per se stesso, ma per noi; preoccupato che a noi manchino la sua serenità, la sua gioia, il suo stesso desiderio di vivere e testimoniare il Vangelo. Preoccupato che anche noi siamo prigionieri, mentre ci crediamo liberi.

Chiediamo dunque che la libertà, che Gesù Cristo ci ha donato perché restassimo liberi (cf. Gal 5, 1) torni a risplendere per tutti: per padre Gigi, e per tutti gli altri che sono, come lui, sequestrati e prigionieri; ma anche per noi, perché, secondo la parola di Paolo, questa libertà non sia per noi un pretesto per chiuderci nell’egoismo, ma possibilità di donare noi stessi in un amore senza calcoli e senza paure (cf. Gal 5, 13); nella fiducia di chi, in ogni circostanza, può dire a Dio – come faremo tra poco nel salmo – «sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene; tu sei mia parte di eredità e mio calice; nelle tue mani è la mia vita» (cf. Sal 16).