Veglia di preghiera per la pace – 31 dic. 2018 – Omelia

Cattedrale di Crema, 31 dicembre 2018

La pace è uno dei grandi desideri dell’uomo; e certamente qui, questa sera, davanti al dono dell’Eucaristia, che ci comunica l’amore col quale il Figlio di Dio si è donato la salvezza dell’uomo, non possiamo che rinnovare questo desiderio, rendendo grazie a Dio per i doni ricevuti in questo anno, e con la fiducia che Egli non verrà meno alla sua promessa.

Molte pagine dei profeti danno voce alla nostra attesa di giustizia e di pace, di quei «cieli nuovi e terra nuova» che, sappiamo, non nasceranno semplicemente dalla nostra buona volontà, ma verranno anzitutto da Dio. Ma non dobbiamo dimenticare che esiste un’attesa e una desiderio anche da parte di Dio nei nostri confronti; dovremmo ricordare che pace, giustizia, rinnovamento dell’umanità e del creato sono dono di Dio, che però impegna anche seriamente l’uomo.
Per questo motivo ho voluto, in questa nostra veglia, riascoltare con voi una delle grandi pagine profetiche dove si parla dell’attesa di Dio nei nostri confronti: questo ascolto, ritengo, può aiutarci a comprendere anche meglio il Messaggio che papa Francesco ha consegnato alla Chiesa e al mondo, in occasione della 52ª Giornata mondiale della pace – Giornata che il santo papa Paolo VI istituì l’8 dicembre 1967 e celebrò per la prima volta il 1° gennaio 1968.
Questa pagina è il «canto d’amore per la vigna», tratto dal capitolo quinto di Isaia (Isaia 5,1-9.20-24). Proprio in quanto «canto d’amore», esso ci aiuta subito a ricordare che l’attesa, anche esigente, di Dio ha, alla sua base, un amore che si è donato senza riserve. È l’amore di chi ha fatto di tutto per curare la vigna, l’ha lavorata con passione e competenza, perché la vite è una pianta delicata, che richiede molta attenzione, e che va curata anche avendo la pazienza di aspettare, perché ci vuole un po’ di tempo, prima che dia frutto; e poi ogni anno ha bisogno di cure, di potatura, di sorveglianza perché non sia preda di parassiti, e può essere colpita dal gelo, dalla grandine, o dalla mancanza d’acqua…
Giustamente, il viticoltore che ha fatto tutto quel doveva e poteva fare per la sua vigna ha il diritto di rimanere deluso se, dopo tutto questo, non riesce a raccogliere frutti. Tutti noi saremmo d’accordo con le conclusioni a cui arriva il contadino, che dice: ho fatto tutto quel che potevo, per la mia vigna, ci ho messo tutto il mio impegno e tutto il mio amore, e non mi ha dato frutto. Che devo fare, dunque?

La conclusione è inevitabile, e l’abbiamo ascoltata: «Toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia» (vv. 5-6). Non può che andare così, evidentemente: e gli abitanti «di Giuda e di Gerusalemme», ai quali il profeta racconta questa parabola, non potevano che essere d’accordo con Isaia…
Solo che non si aspettano, probabilmente, il vero e proprio pugno in faccia, che arriva con le parole che seguono: «Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi» (v. 7).
Il fatto è che, probabilmente (e lo si capisce da questo come da altri passi del profeta) i membri del popolo di Israele avevano pensato che si potesse risolvere la questione di Dio, e rispondere alle sue attese, solo con dei mezzi ‘religiosi’ e tutto sommato poco impegnativi: l’offerta di qualche sacrificio nel tempio, l’incenso, i canti, le preghiere… Ma non è questo, che Dio si attendeva dal suo popolo: egli cercava giustizia, rettitudine, difesa dell’uomo e particolarmente del povero, protezione dell’oppresso, cura dell’orfano, della vedova, del forestiero…
Uno dei grandi insegnamenti di Isaia, e di altri profeti, è proprio questo: Dio aspetta l’uomo; ma non lo aspetta in chissà quale spazio sacro, in chissà quale territorio religioso: lo aspetta fra le case, in mezzo ai campi, lo aspetta nei ritmi e nei tempi della sua giornata ‘normale’. Nei recinti sacri, nei templi, abitano gli idoli – e in Isaia, come negli altri profeti, la polemica con gli idoli è continua.
Dio, invece, abita altrove. Certo, non rifiuta un luogo di incontro con il suo popolo, quale è stato anche il tempio: ma solo a patto che esso non diventi un pretesto per ignorare la giustizia e il diritto. Dio incontra il suo popolo anche nel culto, ma perché poi il popolo si disponga all’incontro con Lui nella vigna, nei campi, sulla riva del mare, nelle vie della città – della polis, da cui il linguaggio della ‘politica’ – e insomma dove l’uomo vive.

L’appello a una politica buona al servizio della pace, che il papa rivolge alla Chiesa e al mondo nel suo Messaggio, va esattamente in questa direzione: che è poi la direzione indicata anche dal Natale che abbiamo celebrato e ancora stiamo celebrando. Nel Natale di Gesù, il canto degli angeli che annuncia la pace non risuona nel tempio, ma nei campi, dove i pastori vegliano sul loro gregge; e il Principe della Pace non nasce nel tempio, ma nella stalla; e affronta, tra le prime sfide della sua vita, quella di un potente della politica del tempo, un re che si sente minacciato a motivo della sua nascita.
C’è un inno della liturgia che prende in giro la paura di Erode: «Perché temi, Erode, / il Signore che viene? / Non toglie i regni umani, / chi dà il regno dei Cieli». Ed è verissimo: colui che dà il regno dei cieli non toglie i regni di questo mondo. Attenzione, però: perché egli non è indifferente a come sono amministrati questi regni, e ne chiede conto. È vero che il suo regno non è di questo mondo, e però egli domanda rettitudine, nel governo di questo mondo; è vero che la pace che egli dona viene dall’alto, e non nasce da sforzi umani; donando la pace, però, egli vuole anche mettere in moto l’intraprendenza umana, perché sia rispettata e onorata la dignità di ogni uomo, creato a immagine di Dio, e ci sia, per l’uomo e per il mondo, quella giustizia, che è condizione della pace.

Anche Gesù, che è la vite vera, quella che finalmente porta il frutto che il Padre si attendeva, aspetta e desidera che i suoi discepoli portino, a loro volta, frutti autentici, rimanendo uniti a Lui e vivendo la beatitudine promessa a quelli che fanno opera di pace. Accogliamo questa attesa e domandiamo a Dio che il suo dono di pace non resti solo una bella speranza, ma entri nella vita di ogni giorno, compresi i palazzi della politica, ma attraversando anche quella responsabilità politica che ciascuno di noi, in modo diversi, è chiamato a vivere. E si compia così, per grazia di Dio, il sogno e la speranza di giustizia e di pace, che portiamo nel cuore.