Veglia di Pentecoste 2022

Sabato sera 4 giugno 2022 il vescovo ha presieduto in Cattedrale la Veglia di Pentecoste, nella quale si è pregato per la pace, in unione specialmente con i rifugiati e le rifugiate ucraini presenti in diocesi. Riportiamo di seguito l’omelia del vescovo.

Sette settimane ci separano dalla Pasqua, quarantanove giorni che diventano cinquanta con la Pentecoste (parola che indica appunto il cinquantesimo giorno). Nel linguaggio della Bibbia, il numero sette indica la pienezza (e anche i sette doni dello Spirito Santo vogliono indicare la pienezza del dono dello Spirito): dunque la solennità della Pentecoste celebra la pienezza della Pasqua.
Il frutto pieno della Pasqua di Gesù, infatti, è l’effusione dello Spirito, di cui il Signore risorto è la sorgente permanente: quello Spirito, che egli riceve senza misura dal Padre, incessantemente lo effonde sui suoi, lo comunica alla sua Chiesa, lo fa soffiare sul mondo, perché il dono della Pasqua sempre più si imprima in tutta la creazione, e in tutta l’umanità, e progressivamente la trasfiguri, conformandola sempre più al Risorto, fino a quando tutto sarà trasformato secondo il disegno di amore del Padre.
I cinquanta giorni che giungono a compimento con la Pentecoste sono stati anche, purtroppo, metà del tempo trascorso da quando, cento giorni fa, l’invasione russa dell’Ucraina riportava scenari di guerra in Europa, causando violenze, distruzioni, vittime, esilio soprattutto di donne elinebreak bambini, rinnovate divisioni anche tra cristiani e molti altri mali di cui ancora non vediamo la fine.
Il nostro radunarsi, questa sera, si inserisce anche in questo contesto, e vuole essere rinnovata preghiera per la pace, perché si facciano tacere le armi e i conflitti possano essere affrontati con le risorse del dialogo e della diplomazia; vuol essere segno di vicinanza a tutti quelli e quelle che più patiscono per questa guerra, e in particolare ai rifugiati ucraini che sono stati accolti nella nostra terra, grazie all’impegno generoso di tante persone e di tante comunità.
Nel corso della Veglia abbiamo ascoltato alcuni passaggi del c. 27 degli Atti degli apostoli: un testo che sta accompagnando il percorso di formazione offerto alle nostre comunità che camminano verso la realizzazione delle Unità pastorali, e che ci ricorda qual è la posizione della Chiesa, e dei cristiani, nel tempo che è dato loro di vivere: sulla stessa barca, con l’umanità tutta, senza posti privilegiati, senza garanzie umane speciali, senza poter chiedere esenzioni o privilegi, rispetto a ciò che tutti sperimentano.
E questa barca, sulla quale navighiamo con tutti gli altri, è squassata dalle tempeste. Non ci siamo lasciati ancora del tutto alle spalle il tempo della pandemia; del resto, anche quel tempo ci ricorda che viviamo in un “mondo malato” nel quale – ce lo ha ricordato papa Francesco – ci eravamo illusi di vivere sani. La guerra in Ucraina ci ha forse anche ricordato le decine di altri conflitti che insanguinano il mondo; ci ha forse aperto un po’ di più gli occhi sulle tante situazioni di conflitto, di ingiustizie, di divisioni, con i quali dobbiamo fare i conti.
Come cristiani non abbiamo, dicevo, garanzie umane speciali, né posti riservati o più al sicuro di altri. Come cristiani, possiamo certo rimboccarci le maniche per far fronte ai problemi (e possiamo immaginare che anche Paolo e i suoi compagni, sulla nave in tempesta che poi farà naufragio a Malta, si siano dati da fare per le necessità di tutti); ma possiamo e dobbiamo dare anche qualcosa di più: una parola di fiducia e di speranza, come quella che Paolo offre ai suoi compagni di navigazione, e di cui siamo debitori al mondo.
Questa parola, che poi non è altro che la «buona notizia», il vangelo di Gesù Cristo, questa sera ho pensato di riproporla a partire dal testo della lettera agli Efesini che abbiamo ascoltato poco fa: e che si riassume nella proclamazione di Gesù Cristo, «nostra pace» (cf. Ef 2,11-22, in particolare v. 14).
Questa parola Paolo la proclama, scrivendo agli Efesini, a partire da una situazione specifica, quella della separazione tra gli ebrei, membri del popolo di Dio, e gli altri popoli, le «genti» – quelli che qui Paolo chiama i «lontani».
Negli spazi del tempio di Gerusalemme, un muro separava il cortile dove si riunivano gli ebrei, dagli altri spazi, accessibili in qualche misura anche ai pagani. Con la sua croce, dice l’apostolo, Gesù Cristo ha abbattuto questo muro di separazione; ha fatto dei due uno, ha voluto togliere di mezzo la divisione, perché potesse nascere l’umanità nuova, radicata nella misericordia e nel perdono di Dio.
La divisione tra Israele e le genti, superata dalla croce di Cristo, è per Paolo segno di ogni altra divisione, che non ha più ragion d’essere: «Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti» (Col 3,11), scrive nella lettera ai Colossesi, molto vicina a quella agli Efesini.
Nessuna divisione, insomma, ha più senso, quando si guarda alla croce di Cristo, nella quale il Figlio di Dio ha voluto abbracciare tutti gli uomini e le donne, tutte le creature, per ricondurle con Sé nello spazio dell’amore fedele del Padre, perché tutti, resi in lui fratelli e sorelle, potessimo presentarci «al Padre in un solo Spirito» (Ef 2,18).
Siamo debitori al mondo di questa parola di pace; una parola che è strettamente legata alla croce del Signore, il che ci ricorda che non possiamo dirla senza misurarci anche noi, come Gesù, con tutto ciò a cui la croce si contrappone: l’inganno, la menzogna, la sopraffazione, l’ingiustizia, la crudeltà, la violenza, la derisione…
Proclamare che Gesù Cristo, il crocifisso, è la nostra pace, significa imparare a stare da credenti sulle fratture, sulle linee di divisione e di conflitto che ancora attraversano la nostra umanità, e la allontanano dal progetto di fraternità in Cristo, che Dio ha concepito per l’uomo.
Per questo abbiamo più che mai bisogno dello Spirito: solo Lui, infatti, può far germogliare in noi un frutto di amore, di gioia, di pace, di benevolenza, di mitezza (cf. Gal 5,22-23), di amore tenace e disarmato, paziente e perseverante, coraggioso e creativo.
Invochiamolo con fiducia, non solo qui, in questa veglia, e in questa Pentecoste, ma sempre, in ogni momento della nostra vita. Sia Lui a dare il respiro giusto alla Chiesa, anche a questa nostra Chiesa di Crema, perché ascoltando ciò che lo Spirito ha da dirle (cf. Ap 2,7.11 ecc.) continui a testimoniare a tutti Gesù Cristo, nel quale è promessa al mondo la pace vera.