Solennità di Tutti i Santi – Omelia

Messa nella Cattedrale di Crema, 1 nov. 2018

Ogni festa cristiana, ma in modo speciale la festa di oggi, vuole farci ricordare (e celebrare) ciò che sta al cuore della nostra fede, ma di cui forse qualche volta, almeno inconsapevolmente, dubitiamo: la vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, la riconciliazione dell’uomo e del mondo con Dio, l’azione efficace dello Spirito che rinnova la faccia della terra e porta a compimento la creazione nuova, l’umanità redenta e trasfigurata dall’amore di Dio.
Certo, il centro di questa certezza è soprattutto il mistero della Pasqua del Signore – ed è bene ricordarsi, come fanno i testi liturgici, che tutte le nostre liturgie, tutte le nostre celebrazioni derivano appunto dalla Pasqua. Ma ciò che la solennità di oggi ricorda e celebra in modo particolare è, potremmo dire, l’efficacia della Pasqua, gli effetti che essa produce nella vita di tanti uomini e donne nel corso dei secoli e dei millenni; oggi celebriamo il fatto che l’amore di Dio trionfa non solo in Gesù Cristo morto e risorto ma anche – e a dispetto di tutti i segni in contrario che non sarebbe difficile elencare – nella vita dell’umanità; e trionfa in abbondanza, non solo in alcune rare eccezioni, se davvero il veggente dell’Apocalisse può contemplare quella «moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua…» (Ap 7, 10).

La moltitudine dei santi, noti o sconosciuti, è l’umanità redenta in Cristo morto e risorto; essa proclama, con la sua stessa esistenza, che l’amore di Dio è più forte di tutto il resto. E noi abbiamo bisogno di ricordarcelo – e per questo la solennità di oggi è particolarmente benvenuta – perché corriamo il rischio, invece, di abbandonarci di più al pessimismo e di pensare, in modo più o meno consapevole, che in realtà il mondo continui a essere malvagio; e che la santità, e la salvezza, siano per pochi, pochissimi eletti; che siano, insomma, l’eccezione, piuttosto che la realtà “normale”, nella quale siamo chiamati a vivere.
La cosa, come potete immaginare, è importante: anche perché, se la salvezza e la santità sono per pochi, diventa più facile l’atteggiamento rinunciatario, quello di chi dice: la santità? no, grazie, non fa per me, non è possibile, come posso pensare di essere un santo?
Di fronte a questo rischio, la prima risposta che si può dare è appunto questa: i santi ci sono! I redenti in Cristo, che «hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 10, 14), sono esistiti ed esistono ancora, in virtù della grazia e della misericordia di Dio, e in loro compagnia anche noi siamo chiamati a vivere la chiamata alla santità, che non è altro poi che la chiamata alla vita in Cristo e nello Spirito, la vita dei figli di Dio. (cf. iilettura).
Come ebbe a dire papa Benedetto xvi, all’inizio del suo pontificato, «non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta» (cf. Francesco, Gaudete et exsultate, 4). Vale per il papa – e anche papa Francesco ha richiamato questa frase nella sua esortazione apostolica Gaudete et exsultate, pubblicata nel marzo scorso e dedicata appunto alla «chiamata alla santità nel mondo contemporaneo» – e vale per ciascuno di noi: non dobbiamo portare da soli l’impegno a realizzare quella santità che è prima di tutto dono di Dio; lo realizziamo sorretti dal dono di Dio, dalla sua grazia, e dall’intercessione e con la compagnia dei santi.

Certo, riconoscere questa vittoria dell’amore di Dio, più forte del peccato e della morte, e riconoscerla operante nella vita di una moltitudine immensa di santi e sante, richiede anche un’altra cosa: la capacità – diciamo pure, anche qui – la grazia di guardare noi stessi, il mondo, la storia con lo sguardo di Dio.
Senza questa capacità, non potremmo neppure capire le beatitudini evangeliche, che sono state proclamate nel vangelo di oggi – e che anche papa Francesco mette al centro dell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate. Perché dobbiamo essere sinceri: le beatitudini appaiono insensate, se lette con uno sguardo puramente umano. Ma le beatitudini ci parlano del mondo come lo vede Dio; e un credente dovrebbe cercare appunto di fare proprio lo sguardo di Dio sul mondo.
Lo si può fare perché questo sguardo è entrato nella nostra storia e nella nostra umanità attraverso Gesù Cristo: e Gesù sa che si può proclamare la beatitudine, la gioia piena, di chi è povero, afflitto, affamato di giustizia e di verità e di pace soltanto a patto di stare dalla parte di Dio e di fare del suo Regno e della sua giustizia la cosa più importante (cf. Mt 6, 33).
La santità del Vangelo, la santità cristiana alla quale Dio ci chiama anzitutto con il dono del suo amore, non è una semplice conferma delle virtù umane, per quanto buone siano. Certo, è una santità che possiamo chiamare ‘ospitale’: che sa far posto, cioè, anche a tutti i migliori valori umani e portarli a un compimento che da soli non potrebbero mai raggiungere: la santità non è disumanizzante, tutt’altro.
E però la santità chiede di prendere sul serio la novità di Cristo e del suo vangelo, il paradosso delle beatitudini, di fare propria la passione per il Regno di Dio che ha animato Gesù fino al punto di mettere in gioco tutta la sua vita. Come dice papa Francesco: «Nonostante le parole di Gesù possano sembrarci poetiche, tuttavia vanno molto controcorrente rispetto a quanto è abituale, a quanto si fa nella società; e, anche se questo messaggio di Gesù ci attrae, in realtà il mondo ci porta verso un altro stile di vita. Le Beatitudini in nessun modo sono qualcosa di leggero o di superficiale; al contrario, possiamo viverle solamente se lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell’egoismo, della pigrizia, dell’orgoglio» (GE 65).

Chiediamo dunque allo Spirito la grazia di questa liberazione, in modo che anche nella nostra vita quotidiana, modellata secondo le Beatitudini evangeliche, si manifesti la santità dell’amore di Dio, più forte del peccato: e ci aiutino l’intercessione e l’esempio dei santi e delle sante, nostri amici in cielo e nostri compagni nel pellegrinaggio terreno.

Messa al Cimitero maggiore di Crema, 1 nov. 2018

In una delle versioni del Credoche si usano abitualmente nella liturgia, i cristiani affermano la loro fede nella «comunione dei santi». Questa espressione ha diversi significati: e il primo di essi (anche se può sorprenderci) riguarda noi stessi, riguarda i battezzati. Sono loro – siamo noi – i «santi»: perché questa parola indica ciò che siamo a partire da quanto Dio ha fatto per noi, nel suo Figlio Gesù.
L’abbiamo sentito nella seconda lettura, anche se non vi appare la parola «santi». Quando san Giovanni dice: «Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1Gv 3, 1), non dice nulla di diverso di ciò che ad esempio dice Paolo quando scrive ai suoi cristiani e li chiama «i santi» (cf. ad es. 1Cor 1, 2).
È importante ricordare che la santità è prima di tutto un dono di Dio: ma è un dono che, come accade per i talenti nella parabola raccontata da Gesù (cf. Mt 25, 14 ss.), Dio mette nelle nostre mani, affida alla nostra vita, perché diventi sempre più fecondo. La santità è dono e compito affidato alla nostra vita, perché ciò che Dio ci ha donato non rimanga sterile, non sia nascosto sotto terra, ma manifesti tutta la sua ricchezza trasformando la nostra vita e rendendola luogo nel quale si rivela ciò che Dio ha fatto per noi. Le Beatitudini che abbiamo ascoltato sono una sorta di traccia, la via che il Signore ci mette davanti, perché riconosciamo il dono di santità che Dio ci ha fatto, lo accogliamo e lo lasciamo fruttificare in noi.

E tutto questo non da soli, ma insieme con gli altri credenti, in comunione con loro: in quella «comunione dei santi» che è, in definitiva, la Chiesa stessa, la comunità dei figli di Dio; quella Chiesa che chiamiamo «santa» – sempre nel Credo– perché anche la Chiesa è anzitutto l’opera di Dio, la sua creatura; e anche la Chiesa santa è chiamata a realizzare sempre più e sempre meglio questa santità che Dio le dona, perché si capisca sempre più e sempre meglio che questa è anche la vocazione di tutta l’umanità.
La «comunione dei santi», che è la Chiesa, non esiste per sé stessa, ma per testimoniare al mondo l’amore di Dio più forte della morte, e per essere lievito che fa entrare nel mondo la novità di Cristo; per dire a tutti che la santità non è qualcosa di astruso o di lontano – ce l’ha ricordato recentemente papa Francesco con la sua esortazione apostolica Gaudete ed exsultate, dedicati appunto alla chiamata alla santità nel mondo di oggi – ma è l’umanità pienamente compiuta secondo il progetto di Dio.

Questo compimento noi lo contempliamo già realizzato nei santi che chiamiamo «del cielo»: in quella «moltitudine immensa», di cui ci ha parlato l’Apocalisse, di uomini e donne che appunto si sono lasciati raggiungere dal dono di Dio e gli hanno permesso di portare un frutto abbondante nella loro vita.
La nostra fede ci dice che anche se essi non sono più parte di questa nostra vita, perché hanno raggiunto la pienezza della vita di Dio, non sono però lontani da noi: la «comunione dei santi», la comunione tra i credenti in questo mondo, non è separata dai santi che già vedono Dio «a faccia a faccia», e neppure dai defunti – che ricordiamo in modo particolare in questi giorni –, incamminati verso la pienezza della vita e della gloria di Dio.
In passato, la familiarità tra quanti ancora vivono in questo mondo e chi già lo ha lasciato, incamminandosi verso la risurrezione e la vita piena, era espressa visibilmente anche dal fatto che i cimiteri erano intorno alle chiese: sicché, quando i cristiani si radunavano – ad esempio per la Messa domenicale – manifestando visibilmente il loro essere «comunione dei santi», si sentivano anche circondati dalla comunione misteriosa, ma vera, di quanti avevano già passato le soglie della morte.
Le nostre consuetudini sono cambiate, ma per i credenti non dovrebbe venire mai meno questa consapevolezza: siamo uniti a questa «moltitudine immensa» di santi, cioè di «salvati» nel sangue dell’Agnello, che sono per lo più nascosti e anonimi, ma che ci ricordano che la Pasqua del Signore è vittoriosa, ed è in attesa del suo pieno compimento, quando tutta la creazione sarà raccolta nella gioia e nella pace di Dio.

Viviamo dunque questa comunione: affidandoci all’intercessione e alla compagnia dei Santi, raccomandando a Dio i nostri cari defunti, crescendo nella comunione vicendevole, che è il segno più importante dell’amore di Dio, donato al mondo nel suo Figlio Gesù Cristo.