Riportiamo di seguito l’omelia del vescovo Daniele per la Solennità di Tutti i Santi (Cattedrale di Crema, 1 nov. 2022)
Per quanto la parola delle beatitudini, ogni volta che la riascoltiamo, ci sembri affascinante, ci dischiuda l’orizzonte di una felicità autentica – questo è il senso della ‘beatitudine’ proclamata da Gesù – credo che non dobbiamo nasconderci anche gli interrogativi che questa parola può seminare in noi.
Davvero possiamo proclamare senza dubbi, senza almeno una qualche esitazione interiore, la felicità di chi è povero, di chi piange, di chi è perseguitato…? Non è che rischiamo di essere troppo superficiali, di assomigliare a dei consolatori a buon mercato di noi stessi o di altri? Di diventare, insomma, come gli amici di Giobbe, venuti a consolarlo nella sua immensa disgrazia, ma che si rivelano «consolatori molesti», come dice lo stesso Giobbe, che presto non li sopporta più e giudica «campate in aria» le loro parole (cf. Gb 16,2).
Sarebbe atroce, e tutt’altro che consolatorio, accostarsi a qualcuno che è nella tribolazione, nella sofferenza, e dirgli: ah, beato te, che soffri! beato te, che piangi! beato te, che patisci l’ingiustizia!… Sarebbe atroce, e antievangelico, dire così, per quanto queste espressioni sembrino ricalcare da vicino le beatitudini pronunciate da Gesù.
Che cosa c’è, che non funziona? C’è, prima di tutto, il fatto che le beatitudini suppongono qualcosa che Gesù non dice esplicitamente, ma che i suoi ascoltatori probabilmente riuscivano a capire meglio di noi, e cioè che “dietro” a tutto ciò che viene promesso con le beatitudini c’è Dio stesso. E allora dovremmo leggere:
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli [che altrove viene chiamato: “il regno di Dio”]. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati da Dio. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra che Dio donerà loro. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati da Dio…».
E capiremmo meglio, allora, che le beatitudini non hanno senso, al di fuori di una fede radicale in Dio, nella sua presenza nella vita dell’uomo e nella storia del mondo. Senza Dio, non dico che le beatitudini si sgretolino, ma certo diventano molto più complicate da pensare e, come dicevo, si prestano a delle interpretazioni addirittura antievangeliche: come se io dicessi a qualcuno: beato te, perché sei povero, o perché patisci, e non facessi niente per sollevarlo dalla sua povertà o dai suoi patimenti!
Gesù “vede” Dio all’opera, vede il Padre e tutta la sovrabbondante ricchezza del suo amore, e per questo può dire: «Beati i poveri, beati gli afflitti, beati i miti» ecc. Perché nella luce di Dio queste condizioni acquistano un senso, indicano un modo diverso di intendere la vita e di affrontarne le diverse situazioni, comprese quelle più difficili, e spingono l’uomo e la donna di fede anche a operare – come ha fatto Gesù stesso – perché la presenza di Dio e del suo amore si manifesti pienamente.
Ho voluto dire tutto questo perché mi preme sottolineare che i santi e le sante, che oggi onoriamo in un’unica festa (che abbraccia anche e soprattutto le figure anonime, sconosciute, della santità nel corso dei secoli: anonime e sconosciute a noi, ma non certo a Dio…), i santi e le sante, dicevo, sono stati uomini e donne innamorate di Dio, uomini e donne che si sono lasciate abbacinare dalla sua luce, e non hanno voluto vedere nulla che non fosse in questa luce.
Non si capisce la santità, se non si capisce che Dio era davvero il centro, il cuore della vita e dei pensieri dei santi. Noi spesso guardiamo a ciò che i santi e le sante hanno fatto: ed è giusto, ne traiamo anche stimolo per operare, noi pure, nelle tante vie della carità, della giustizia, del servizio al prossimo, che la santità ci indica.
Ma queste sono solo la conseguenza, certo importante e necessaria, di ciò che per loro era il cuore, il vero nucleo vitale: Dio al centro della loro esistenza, dei loro desideri, delle loro passioni… Magari anche “lottando” con Dio, perché non è sempre detto che la fede sia pacificante e tranquilla, anzi! Ma è certo che per loro Dio era una presenza vivente, un ‘Tu’ con il quale sempre mettersi in relazione, accettando anche i suoi lunghi silenzi, i tempi dell’assenza, del nascondimento, di questo Dio cercato e amato con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze – e che li spingeva poi ad amare il prossimo come sé stessi.
Vale per tutti i santi e le sante, credo, ciò che ebbe a dire san Charles de Foucauld, l’apostolo del Sahara nei primi decenni del Novecento, canonizzato il 15 maggio scorso: «Appena credetti che c’era un Dio, capii che non potevo fare altro che vivere per Lui».
Lui, certo, l’ha poi fatto con un radicalismo addirittura estremo, ma nella storia di santità della Chiesa ci sono mille modi per vivere per Dio – e per il prossimo.
Ma la sorgente, e anche il punto di arrivo, rimane quello: rimane il Dio e Padre di Gesù Cristo, di cui possiamo dire, con le parole di san Giovanni, «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1Gv 3,1).
E a me sembra che questa fede ardente in Dio, sia ciò che il mondo più si aspetti oggi dai cristiani e dalla Chiesa, e che forse non sempre noi riusciamo a dare.
L’esempio e l’intercessione di tutti i santi e le sante ci aiutino, allora, a mettere Dio al centro, a cercarlo ogni giorno con tutto noi stessi, per provare anche noi la gioia delle beatitudini e camminare lietamente per le vie della santità, sulle quali Dio chiama ciascuno di noi.