Cattedrale di Crema, 15 agosto 2020
Sono passati settant’anni da quando, nel 1950, il papa Pio XII proclamò solennemente il dogma dell’Assunzione di Maria in cielo.
Forse è bene ricordare che, facendo questo, il papa non intendeva «inventare» nulla di nuovo. La proclamazione solenne del dogma dell’Assunzione voleva dire il riconoscimento ufficiale, per tutta la Chiesa, di ciò che la fede del popolo di Dio, ma anche tante riflessioni teologiche e spirituali, e anche tanti monumenti, già sapevano e dicevano: e cioè che la vergine Maria, inseparabilmente unita al suo Figlio Gesù anzitutto per la fede, e poi in tutta la vicenda della sua vita, non poteva essere separata da Lui dalla morte. Maria, unita al Figlio Gesù in tutta la sua esistenza, assunta in cielo, è già partecipe della sua risurrezione gloriosa.
Come dicevo, da molto tempo questa convinzione di fede veniva espressa in tanti modi: tra i questi, e non ultimo, il fatto di tante chiese – in particolare tante cattedrali, come la nostra – dedicate da secoli alla Vergine Maria assunta in cielo.
Settant’anni fa, dunque, raccogliendo richieste e preghiere provenienti da varie parti della Chiesa, il papa formulava ufficialmente questa profonda convinzione della fede. Potremmo dirla anche così: se è vero ciò che abbiamo sentito nelle parole di Paolo, lette nella Messa non più tardi di due domeniche fa – «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 35.38-39) – se nulla dunque, neppure la morte, può separarci dall’amore di Dio in Cristo Signore, questo dev’essere vero in un modo speciale e particolare per Maria, che in tutta la vita è stata unita al suo Figlio in un modo unico e singolare.
Vorrei fermarmi un momento su questa dimensione della «inseparabilità»: di noi rispetto all’amore di Dio, che ci è stato manifestato e donato in Cristo; di Maria, anche lei destinataria di questo amore, nei confronti del suo Figlio Gesù. Essa ci aiuta a gettare uno sguardo sull’esperienza della morte, quell’«ultimo nemico» di cui parla Paolo, come abbiamo sentito nella seconda lettura.
Gli uomini della Bibbia, anche quando non avevano ancora formulato con chiarezza l’attesa di una vita al di là della morte, e quindi ritenevano che la vicenda umana si giocasse tutta nel corso della vita terrena, facevano fatica a pensare che, con la morte, l’uomo sparisse del tutto. Coloro che non sono più in questo mondo, in un certo senso «esistono» ancora: ma «esistono» appunto come morti, cioè ormai irrimediabilmente separati da Dio, fonte della vita, e dagli altri viventi. Esiste un «regno dei morti», in ebraico sheol: ma è un luogo di ombra, di non-vita, simile all’Ade dei Greci.
Per questo, quel sapiente misterioso che nella Bibbia ha il nome di Qoelet ammoniva: «Tutto ciò che la tua mano è in grado di fare, fallo con tutta la tua forza, perché non ci sarà né attività né calcolo né scienza né sapienza nel regno dei morti, dove stai per andare» (Qo 9,10). Nello sheol, ogni comunicazione, ogni relazione, ogni legame è scomparso: perché quando non c’è legame con Dio né con gli altri, non c’è vita, ma solo morte. La separazione, da Dio e dagli altri, è appunto la condizione della morte.
A suo modo, ce lo ha ricordato anche l’esperienza dolorosa che in tanti hanno vissuto durante la fase più drammatica della pandemia, nei mesi scorsi: quando, al dramma della malattia, si è aggiunta l’estrema difficoltà, e in certi casi anche l’impossibilità, di comunicare con chi stava male. A rendere particolarmente doloroso il distacco nei confronti di chi ci ha lasciato è stata anche l’impossibilità della relazione: di poter scambiare una parola, uno sguardo, una carezza… C’è stata, in molti casi, un’esperienza di separazione improvvisa, che ci ha fatto percepire ancora di più il dramma della morte.
Così forse comprendiamo anche meglio ciò che ci assicura la nostra fede, quella fede che oggi ci fa guardare a Maria, assunta in cielo, accolta per sempre nella gloria del suo Figlio morto e risorto. Questa fede ci assicura che Dio, in Gesù Cristo, ha voluto stabilire con noi un legame indissolubile; un legame così forte, che neppure la morte potrà infrangere.
C’è una bella immagine, che troviamo nelle icone orientali (e a volte anche nelle raffigurazioni occidentali) della Pasqua: è l’immagine di Gesù crocifisso, che scende appunto nello sheol, nel regno dei morti, ne distrugge le porte, prende per mano Adamo ed Eva, e li chiama a salire con sé verso la vita piena ed eterna. Proprio questo prendere per mano i progenitori – e in loro, evidentemente, tutta l’umanità – rende benissimo l’idea di ciò che la fede annuncia: in Cristo, Dio ormai ci ha preso per mano per condurci alla pienezza della vita, e nulla potrà mai separarci da lui.
La questione è allora che anche noi ci lasciamo prendere per mano dal Signore Gesù, ci lasciamo condurre da Lui sulla via della vita. Tutta la vicenda di Maria ci insegna cosa significa questo lasciarci prendere per mano, che è poi, in definitiva, vivere nella fede. Non è un lasciarci prendere per mano inerte, passivo: Maria è una donna che sa ascoltare e interrogare; il sì della sua fede è quello di una persona responsabile e piena di iniziativa, e che così si abbandona nella via di Dio, sicura che, quando ci si lascia prendere per mano da Lui, il punto di arrivo non può essere che la risurrezione e la vita piena.
È un lasciarci prendere per mano che ci impegna anche a non separarci dagli altri: ciò che Maria vive, il suo sì a Dio, lo vive come servizio e dono per noi tutti. È impossibile pretendere di rimanere inseparabilmente uniti a Dio, fonte di una vita più forte della morte, se non accettiamo di restare uniti gli uni con gli altri.
Maria, che Elisabetta proclamata beata in virtù della sua fede (cf. Lc 2, 45), sia per noi di esempio e incoraggiamento: anche da lei, assunta nella gloria della risurrezione di Cristo, ci lasciamo prendere per mano, perché nulla, in vita e in morte, ci separi mai dall’amore di Dio e dalla carità vicendevole.