Solennità del Sacro Cuore di Gesù – 2022

Nella Solennità del S. Cuore di Gesù, il vescovo Daniele ha presieduto l’Eucaristia nella parrocchia del S. Cuore a Crema Nuova, la sera del 24 giugno 2022. Riportiamo di seguito l’omelia.

 

I testi delle letture bibliche ascoltate in questa liturgia della parola, in particolare nel vangelo (Lc 15,3-7), nella prima lettura (Ez 34,11-16) e nel salmo responsoriale (Sal 23/22), convergono su un’immagine, che la tradizione cristiana – riprendendo, peraltro, una parola di Gesù del vangelo di Giovanni – sintetizza come il buon pastore (cf. Gv 10,11.14).
È vero: oggi si sottolinea che l’aggettivo greco kalós, che spesso traduciamo con ‘buono’, significa anche ‘bello’, e quindi si ama parlare del «bel pastore» – e questa cosa ci può anche stare. Ma non c’è dubbio che in vari testi biblici questo aggettivo vuol dire senz’altro e semplicemente ‘buono’: quando, ad esempio, viene applicato all’acqua diventata vino a Cana di Galilea (cf. Gv 2,10), penso che a nessuno verrebbe in mente di tradurlo con ‘bello’, e parlare appunto di vino ‘bello’: è senz’altro il vino buono! E si potrebbero citare molti altri testi.
Questa piccola premessa linguistica serve a giustificare il fatto che vorrei, questa sera, riflettere un momento proprio sulla bontà: perché mi sembra che questa sia una delle sfaccettature più importanti di ciò che la contemplazione del Sacro Cuore di Gesù vuol mettere davanti al nostro sguardo di fede. Nel Sacro Cuore si rivela appunto la bontà di Dio, manifestata in modo particolare nei gesti, nelle parole, nella vita intera del «buon Pastore», Gesù Cristo, che dà la vita per le sue pecore (cf. Gv 10,11).
Contemplando questa bontà nel mistero del Cuore di Cristo, provo a chiedermi: che cosa vuol dire essere un uomo, una donna, un cristiano, un prete (e anche un vescovo…) buono? Parliamo spesso dell’amore, non possiamo farne a meno, da cristiani. Saggiamente, Romano Guardini avvertiva che «bisognerebbe invece parlarne più di rado, sarebbe meglio per esso, e parlare più frequentemente di ciò di cui il nostro tempo, nella sua asprezza, avrebbe tanto bisogno, appunto della bontà» (R. Guardini, Virtù. Temi e prospettive della vita morale, Morcelliana, Brescia, III ed. 1997, 123).
Oggi, spesso, la bontà è screditata; è derisa parlando di ‘buonismo’; si rischia di fraintenderla come qualcosa di debole, di passivo, come una via di fuga dai conflitti, come un modo per non far fronte seriamente alle difficoltà o ai problemi, o anche all’effettiva cattiveria che possiamo riscontrare nelle persone (salvo, magari, essere ‘buoni’ con noi stessi, e cattivi nei confronti degli altri…).
È curioso che ci possa essere questo disprezzo della bontà, a volte anche da parte dei credenti, per i quali dovrebbe essere persino ovvio riconoscere la bontà come uno dei principali e fondamentali attributi di Dio; e dire col salmista, tra le decine di altre frasi: «Gustate e vedete com’è buono il Signore» (Sal 34,9); «Tu sei buono, Signore, e perdoni…» (Sal 86,5); «Rendete grazie al Signore, perché è buono…» (Sal 106,1; 107,1; 118,1 ecc.); «Buono è il Signore verso tutti…; giusto è il Signore in tutte le sue vie / e buono in tutte le sue opere» (Sal 145,9.17).
Non dimentico, naturalmente, che proclamare la bontà di Dio vuol dire anche fare i conti con domande molto difficili, specie quelle che riguardano il male, la sofferenza – in modo particolare la sofferenza, il dolore innocente; e già la Bibbia, come sappiamo, si interroga lungamente su questo tema, specialmente nel libro di Giobbe.
Forse, però, ciò che più ci dà fastidio, ciò che più ci scandalizza, in concreto, è il modo in cui la bontà di Dio prende il volto di Gesù: perché in lui questa bontà si rivela persino «ingiusta», quando fa piovere e splendere il sole sui giusti e sugli empi (cf. Mt 5,45), senza differenze; quando predilige i peccatori, i lontani; quando fa più festa per un peccatore pentito che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione (cf. Lc 15,7: vangelo); quando rivela che gli operai dell’ultima ora ricevono lo stesso salario di chi ha lavorato tutto il giorno (cf. Mt 20,14-15); quando, addirittura, accetta su di sé una morte ingiusta, quando muore non già per delle persone dabbene, non per delle persone buone, ma per noi che eravamo deboli, peccatori, nemici… (cf. Rm 5,1-5: II lettura).
Va bene essere buoni, viene da dire, ma qui si esagera! È possibile essere buoni in questo modo? Non si finisce per fare la figura degli stupidi, più che di persone buone? È un rischio che dobbiamo correre, credo: anche perché la nostra fede, come già ricordava Paolo ai Corinzi, è inseparabile dalla follia della croce (cf. 1Cor 1,18-25).

Sulla via di questa bontà, che ci configura al Signore Gesù, al suo Cuore e, in lui, ci chiede di essere immagini viventi del Dio sommamente buono (e, per noi preti, di essere segno sacramentale del buon Pastore), richiamo, per finire, quattro caratteristiche della bontà, che riprendo ancora da Romano Guardini, e che mi sembrano significative. (Cf. R. Guardini, Virtù, 123-126).
Primo: l’uomo e la donna buoni sono quelli che hanno «una buona opinione della vita», che pensano bene di essa, e quindi sanno lasciare da parte atteggiamenti come l’autoritarismo, il rancore, l’amarezza, l’invidia, le critiche… e sono invece capaci anzitutto e soprattutto di apprezzare, di promuovere, di scorgere e favorire tutto ciò che c’è di buono, e fanno tutto il possibile perché la vita cresca dappertutto dove essa si manifesta e, naturalmente, anzitutto negli altri, oltre che in sé stessi.
Un secondo tratto della bontà è la forza: perché acconsentire alla bontà della vita, percepire questa bontà, voler farla crescere in tutti i modi, anche e soprattutto quando si debbono fare i conti con dimensioni di sofferenza, di pena, di durezza… tutto questo richiede forza, perseveranza, pazienza a non finire: «Guai alla bontà quando è ben disposta, ma è debole. Le potrebbe accadere di naufragare a causa della sua stessa compassione; o invece di convertirsi in prepotenza per salvarsi».
La bontà poi ha bisogno di umorismo: che non vuol dire prendere in giro le situazioni o, meno ancora, le persone; ma vuol dire saper cogliere anche i lati strani, e persino comici, che la vita e anche le persone portano con sé e affrontarli, appunto, nel modo che meritano: «Umorismo è un riso amichevole sulla stranezza di tutto ciò che è umano. Esso aiuta a essere buoni, poiché dopo aver riso è più facile tornare a impegnarsi con serietà».
E finalmente, condivido volentieri l’osservazione di Guardini, secondo il quale la bontà è silenziosa: «La vera bontà non parla molto; non spinge per farsi strada; non fa chiasso con organizzazioni e statistiche; non fotografa e non analizza. Quanto più è profonda, tanto più si fa silenziosa. È il pane quotidiano di cui si nutre la vita. Là dove tutto questo scompare, ci potrà essere scienza, politica, benessere, ma in ultima analisi tutto resta freddo».

Sono indicazioni semplici ma, credo, preziose. Il Signore Gesù, il cui Sacro Cuore riassume la bontà senza confini del Padre, ci aiuti a camminare su questa strada e a essere anche noi, non solo destinatari, ma anche imitatrici e imitatori di questa bontà.