La sera del 3 maggio 2022 si è tenuto il pellegrinaggio diocesano alla Basilica di S. Maria della Croce, concluso con la celebrazione dell’Eucaristia che il vescovo Daniele ha presieduto, nel piazzale antistante il santuario. Riportiamo di seguito l’omelia.
Solo attraverso il Figlio noi possiamo incontrare il Padre. Questa mi sembra la sintesi – per quanto possibile con le nostre parole – di ciò che Gesù dice rispondendo alla richiesta dell’apostolo Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8).
(Che non è una richiesta da poco… Ma forse il problema è che noi tendiamo ad accontentarci di molto meno, non sappiamo fare nostro il desiderio, la richiesta così grande e ardita di Filippo…)
In ogni modo, per tornare alla risposta di Gesù: solo attraverso di lui, solo attraverso il Figlio, possiamo incontrare il Padre. Perché il Padre, se davvero è tale, non può essere conosciuto “in Sé”, indipendentemente dal movimento totale di donazione, di amore, con il quale Egli si comunica al Figlio. È proprio in questa donazione, che egli si mostra Padre: donandosi nel Figlio, e donandoci il Figlio.
E solo lì dove questa donazione viene accolta in pienezza, solo lì dove Qualcuno esiste non “da sé”, perché riceve tutto senza nulla trattenere, ma anzi restituendo tutto nell’amore filiale, insomma solo lì dove c’è il Figlio, che è la sua perfetta trasparenza, possiamo “vedere” e riconoscere il Padre.
Il Padre non vuole essere riconosciuto in Sé, ma attraverso il dono del Figlio; e il Figlio non vuole essere riconosciuto in Sé, ma solo come immagine del Padre e risposta al suo dono d’amore. E l’uno e l’altro, potremmo aggiungere, sono una cosa sola riferendosi all’unico Spirito, che è la loro vivente e perfetta comunione.
Ora, tutto questo può essere visto “solo” come formulazione – certo sempre debole, inadeguata – della nostra fede trinitaria, quella che professiamo anche nel Credo, o che si esprime in tutta la preghiera liturgica, come l’Eucaristia che stiamo celebrando. Ma possiamo anche provare a domandarci: questa “logica” trinitaria, non potrebbe anche ispirare un po’ di più la nostra vita, il nostro modo di comportarci? Dopo tutto, siamo creati a immagine di Dio, di quel Dio che è appunto comunione trinitaria di vita e di amore; e il Battesimo ha rinnovato questa immagine, e ci ha immersi nella comunione trinitaria, dal momento che siamo stati battezzati «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo».
Non potrebbe essere questo, il criterio della “identità”, con la quale ciascuno vorrebbe essere riconosciuto? Perché, appunto, essere apprezzato e riconosciuto dagli altri è un desiderio, e anzi un bisogno fondamentale della nostra vita. Ma in che cosa farci riconoscere, per che cosa essere apprezzati e riconosciuti?
Mi capita ogni tanto di ricevere dei complimenti… Fanno piacere, certo: ma un vescovo dovrebbe ricevere complimenti non per sé, ma eventualmente per la Chiesa che gli è affidata; il titolo di vanto di un parroco dovrebbe essere la sua parrocchia, non la sua persona…
O, per venire alla famiglia – dal momento che è ad essa che soprattutto vogliamo dedicare questo nostro incontro di fede: mi è capitato una volta di sentir dire, da una persona molto esperta delle dinamiche famigliari, e che parlava a dei genitori: guardate che i vostri figli, in particolare gli adolescenti, vi guardano e vi “giudicano”, non tanto e non principalmente in voi stessi come singole persone, e neanche principalmente per le relazioni che avete nei confronti di loro, dei vostri figli, ma per le relazioni che avete tra di voi, come marito e moglie! I vostri figli vi osservano, vi riconoscono e vi apprezzano (o eventualmente vi criticano) per come vivete l’attenzione reciproca, per la cura e il rispetto che avete l’uno nei confronti dell’altra (o eventualmente per le carenze di queste relazioni).
Il “gioco” divino – chiamiamolo così, per intenderci – in virtù del quale il Padre dice: guardate al mio Figlio amato, ascoltate lui (cf. Lc 9,35 e par.)! E per il quale il Figlio dice: «Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere» (Gv 6,10); questo “gioco” divino potrebbe essere la chiave per la quale nessuno di noi si compiace di sé stesso, nessuno di noi mette al centro sé stesso, nessuno pone il suo vanto in sé stesso: è il “gioco” di un radicale “decentramento”, che ci porta a vivere e a essere “noi stessi” solo con l’altro, nell’altro e per l’altro.
Che cosa fa, del resto, l’umile serva del Signore, verso la quale siamo venuti questa sera in pellegrinaggio, camminando verso questo bel santuario di santa Maria della Croce? Si presenta appunto come l’«umile serva del Signore» (cf. Lc 1,38.48); e se proclama nel suo cantico che «tutte le generazioni la chiameranno beata» (cf. Lc 1,48), è per le grandi cose che Dio, l’Onnipotente, ha compiuto in lei; è per ciò che Lui ha fatto, e continuamente fa, quando disperde i superbi e abbassa i potenti, per innalzare gli umili e manifestare in loro la sua misericordia.
Maria di Nazaret non dice, insomma: lodate me, ma: lodate Dio, benedite Lui! E sempre ci invita a guardare al suo Figlio, a fare tutto ciò che lui ci dice di fare (cf. Gv 2,5). Ancora una volta, la logica è quella del “decentrarsi”. E, in fondo – tornando al vangelo che abbiamo ascoltato –, non appartiene a questo “decentrarsi” anche la parola straordinaria, che Gesù dice solennemente ai discepoli: «In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre» (Gv 14,12)?
C’è un’opera più grande, rispetto a quella che Gesù ha compiuto, l’opera della salvezza che il Padre gli ha affidato? Eppure, «chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste»! E d’altra parte, se ci dovesse accadere di compiere un’opera “più grande”, cosa diremmo? Applauditemi, perché sono stato tanto bravo? Non diremmo, piuttosto: date gloria a Dio e benedite Lui solo?
Questa divina logica di “decentramento”, che impariamo dalla relazione del Padre e del Figlio, nell’unità dell’unico Spirito, è davvero liberante. Ci spinge a “realizzare noi stessi”, come si dice, sempre nel dono e nella comunione con l’altro: ci fa vivere, desiderando e operando perché l’altro viva in pienezza.
Ai discepoli, prima della passione, Gesù aveva lasciato il “comandamento nuovo”: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). E cioè: dal momento che vi ho amato, non ‘amate me’, ma amatevi tra di voi. Non solo: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (ivi, v. 35).
Il segno definitivo del nostro legame con Gesù non è tanto l’amore verso di lui, ma l’amore vicendevole! Questo è il divino “decentramento”, che ci viene consegnato dal Padre, per il Figlio e nello Spirito, perché tutte le nostre relazioni – nella famiglia, nella Chiesa, nella società – ne siano trasformate, e la nostra gloria, felicità e gioia consista nella gloria, nella felicità e nella gioia dei fratelli.