Riportiamo di seguito l’omelia del vescovo Daniele per la solenne Messa di Pasqua, celebrata in Cattedrale domenica 17 aprile 2022.
In tutte le chiese del mondo, oggi, e in questi giorni (perché non tutti i cristiani celebrano la Pasqua nello stesso giorno: una parte del mondo cristiano la celebrerà domenica prossima), torna a risuonare con tante parole diverse l’unico annuncio pasquale: Cristo è risorto dai morti, la morte non ha più potere su di lui: «egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio» (Rm 6,10).
Possiamo ripeterlo, questo annuncio, perché quasi duemila anni fa qualcuno ha reso testimonianza a questo fatto: dopo la sua morte vergognosa, Gesù Cristo si è mostrato vivo ai suoi discepoli. Lo abbiamo sentito dalle parole di Pietro, nella prima lettura:
«… noi siamo testimoni di tutte le cose compiute [da Gesù] nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti» (At 10,39-41).
Ci si è chiesti regolarmente: come mai Gesù risorto è apparso soltanto ai suoi discepoli – e, prima ancora, alle donne: che, come Maria di Magdala, sono le prime ad andare a visitare il sepolcro (cf. Gv 20,1), e sono le prime a incontrare Gesù vivente dopo la sua morte?
Non sarebbe stata una prova più forte, se Gesù si fosse mostrato, in tutta la sua gloria di risorto, a chi lo aveva arrestato, a chi lo aveva processato e condannato a morire sulla croce? Se Gesù fosse apparso vivo, dopo la sua morte, ai sommi sacerdoti, a Pilato, alle folle che erano ancora a Gerusalemme per le festività pasquali, quale dimostrazione di potenza, quale argomento convincente…!
Di fronte a una impostazione così (che qualche volta si sente anche da parte di bravi cristiani), bisogna fermarsi e chiedersi: sì, ma quale Dio ci immaginiamo, per pensare a una reazione di questo genere? Non è un Dio troppo misurato secondo i nostri schemi? Un Dio pensato troppo a nostra immagine e somiglianza?
Perché è proprio ‘nostro’, questo modo di pensare; ‘nostro’ nel senso che risente troppo dei nostri limiti, delle nostre piccolezze. Siamo noi che, di fronte ai contrasti, di fronte alle opposizioni, di fronte a chi ci fa del male, finiamo sempre – o quasi – per sognare la vendetta, per pensare: te la farò vedere io, ti mostrerò io chi sono, quanto valgo, quale potere ho, appena ne avrò l’occasione…
Noi ragioniamo così – e tendiamo a pensare che anche Dio ‘debba’ ragionare così. Ma il Dio di Gesù Cristo, il Dio che oggi accoglie nella pienezza della vita il suo Figlio, consegnato alla morte per noi, la pensa in un modo tutto diverso. E ci mette davanti il suo Figlio risorto e vivente proprio per dire: no, io la penso in tutt’altro modo.
Ascoltiamo ancora le parole di Pietro nella prima lettura: dove si dice che Dio ha costituito Gesù, morto e risorto, «giudice dei vivi e dei morti» (At 10,42): il che vuol dire, naturalmente, che Gesù è il “metro”, la misura secondo la quale Dio valuterà tutto: il mondo, la storia, la vita di ciascuno di noi…
Ma non per ripicca, non per vendetta: perché, subito dopo, Pietro aggiunge: «chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome» (v. 43). Questa è la “vendetta” paradossale di Dio, nei confronti di chi ha respinto il suo Figlio: il perdono, la misericordia.
Ci aiuta a capirlo meglio anticipare anche il vangelo di domenica prossima: dove leggeremo che Gesù risorto si presenta in mezzo ai discepoli e la prima cosa che dice loro (e che poi ripete, a scanso di equivoci) è: «Pace a voi» (cf. Gv 20,19.21): che è appunto la parola del perdono, della misericordia, dell’amicizia ricostituita. Perché Gesù la dice a quei discepoli che lo avevano abbandonato, rinnegato, tradito… Proprio per loro, prima di tutti, Gesù pronuncia una parola di pace e di riconciliazione.
Proclamare la risurrezione di Cristo vuol dire questo: affermare la vittoria del perdono, della misericordia, della riconciliazione, della pace. E, naturalmente, non farlo soltanto a parole. Si tratta di credere, e poi di attuare, questa convinzione: che ciò che fa vivere il mondo non sono i nostri sogni di rivalsa, i nostri desideri di vendetta o anche solo di dominazione.
Ciò che dà vita al mondo è la potenza dell’amore misericordioso di Dio, che prende il volto di Gesù, morto e risorto. Credere a questo – credere alla verità della Pasqua, insomma – vuol poi dire darsi da fare perché tutto questo diventi visibile, operante, nel mondo.
Vuol dire vivere da «risorti con Cristo, [cercando] le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio» (Col 3,1).
Le “cose di lassù” sono le “cose” coerenti con la risurrezione di Gesù: sono dunque “cose” come il perdono, come la riconciliazione, come la pace – quella pace di cui tanto parliamo in queste settimane; sono quelle forme di vita che cercano la comprensione e l’incontro; sono la rinuncia alla vendetta, al ricambiare male per male; sono, le “cose di lassù”, accettare che ciò che Dio ha mostrato di Sé nel suo Figlio diventi anche il criterio della nostra vita; appunto perché questo significa che egli è giudice dei vivi e dei morti: lui, Gesù, morto e risorto, è il metro di una vita buona, di una vita “giusta”, di una vita “eterna”.
Sì, la risurrezione di Gesù è promessa di risurrezione e vita eterna anche per noi. Ma non per domani, o per chissà quando: «Siete risorti con Cristo», proclama Paolo ai Colossesi: siete già partecipi della novità di vita. Vivete, viviamo dunque secondo Cristo risorto, secondo la logica paradossale del suo dono di amore; l’eternità entrerà a far parte della nostra vita e nulla, neppure la morte, già vinta da Cristo, potrà allontanarci dalla bellezza e dalla gioia di ciò che rimane per sempre.