Ordinazione presbiterale di don Piergiorgio Fiori – Omelia

Cattedrale di Crema, 8 giugno 2019

C’è qualcosa di strano, nel racconto della «torre di Babele» che abbiamo ascoltato come prima lettura. L’autore biblico dice infatti che «tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole» (Gen 11, 1). In realtà, però, nel capitolo precedente della Genesi, si leggeva che «da costoro – cioè dai figli di Noè, dopo il diluvio – derivarono le genti disperse per le isole, nei loro territori, ciascuna secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie, nelle rispettive nazioni» (10, 5). L’umanità, dunque, già prima di Babele era distinta nei diversi popoli, e con le diverse lingue: e tutto questo, per la Bibbia, non è qualcosa di negativo; si tratta, invece, della realizzazione della benedizione di Dio e dell’alleanza che Dio aveva rinnovato con la creazione, dopo il diluvio.
L’episodio della torre di Babele non vuole farci riflettere, dunque, sul passaggio da un’umanità unita e con una sola lingua a un’umanità disseminata ovunque e con lingue diverse: questo, ripeto, esisteva già. Si tratta, piuttosto, del conflitto tra un modo umano e un modo divino di concepire la società umana e la sua unità.
Il modo umano è quello totalitario: un’unica lingua, o piuttosto «uniche parole», cioè uno stesso modo di ragionare, dove ogni modo diverso di pensare è escluso; una società che si costruisce con tanti mattoni, tutti uguali, in forma e misura standardizzata; una società di schiavi – perché, come impareranno gli ebrei in Egitto, costruire mattoni era un mestiere da schiavi; una società che cerca un unico capo con autorità e poteri divini (la «cima/capo» che dovrebbe «toccare il cielo»)…
A Dio, tutto questo non piace: Egli «scende», dunque, a scompigliare tutto, a mandare all’aria l’unità totalitaria, uniforme e oppressiva, che gli uomini vorrebbero costruire. Questo progetto umano contrasta con la creazione di Dio, che vuole realizzare la comunione attraverso la diversità e l’alleanza, e non attraverso l’uniformità.
È per questo che Dio, fin dall’inizio della creazione, «separa»: separa la luce dalle tenebre, l’alto dal basso, le acque dall’asciutto… così come «separerà» Israele dagli altri popoli, per farne il popolo da lui scelto. E «separa» anche alcune persone, le «mette a parte», perché siano strumenti della sua azione di salvezza nei confronti dei fratelli. Così, ad es., Paolo si presenta come apostolo «messo a parte» (cf. Rm 1, 1), prescelto da Dio per servire il vangelo di Cristo (cf. anche Gal 1, 15; At 13, 2).
Anche ciò che stiamo vivendo questa sera ci porta in questa direzione. C’è il mistero di una scelta, di una elezione di Dio, in un nostro fratello che viene costituito nel ministero presbiterale. Non si tratta prima di tutto di una scelta umana, per quanto questa sia determinante. Ma la scelta umana, il che liberamente Piergiorgio ha detto a Dio, e che rinnoverà questa sera per dire la sua disponibilità di donarsi a Dio e alla sua Chiesa nel ministero presbiterale, viene dopo la chiamata e la scelta di Dio, che sono il fondamento della fede di ciascuno di noi, come pure del ministero affidato a Piergiorgio.
La chiamata di Dio è il riflesso dell’amore con il quale Dio ci ama non genericamente, come se fossimo tanti mattoni tutti eguali, ma ciascuno nella sua identità, conoscendoci e chiamandoci per nome. Ritornare a questa vocazione da parte di Dio sarà continuamente per te, caro Piergiorgio, il modo migliore per ancorarti saldamente a ciò che potrà sostenerti e accompagnarti anche nei momenti inevitabili di fatica e difficoltà; e ti permetterà di rendere sempre grazie a Dio dei suoi molti doni, di quel «centuplo» che il Signore Gesù ha promesso già per questa vita a chi ha deciso di seguirlo lasciando tutto (cf. Mc 10, 29 s.), e che anche tu potrai senz’altro sperimentare.

Dio, però, non ti separa, non ti mette a parte, consacrandoti suo presbitero nella Chiesa, per fare di te un privilegiato, per chiuderti in una torre dorata o per crearti posizioni di superiorità e dominio. Se Dio «separa», non è per isolare, ma per creare comunione; se ti «mette da parte», lo fa solo per rendere possibile quella fecondità di vita – della sua vita divina – che l’uniformità, invece, soffoca e vorrebbe uccidere.
La Lettera agli Ebrei sottolinea ripetutamente che l’unicità, la singolarità del sacerdozio di Cristo, va di pari passo con il suo legame con quelli che egli non si vergogna di chiamare «fratelli» (cf. Eb 2, 10-18). Per questo, nell’atto stesso con il quale Dio ti costituisce presbitero nella sua Chiesa, ti manda immediatamente verso i tuoi «fratelli»; Dio assicura al tuo ministero il dono di una vera fecondità, chiedendoti di entrare in una piena solidarietà con tutti quelli che ti farà incontrare nella tua vita di prete, condividendo «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (Gaudium et spes, 1).
Questa fraternità tu potrai viverla, anzi hai già incominciato a viverla, anzitutto nelle comunità cristiane alle quali sei o sarai inviato. Desidero però anche richiamarti all’importanza della fraternità nel presbiterio diocesano, che questa sera ti accoglie con gioia e riconoscenza. La tua persona, la tua storia, le tue capacità, lo possono arricchire di un dono particolare; al tempo stesso, mi auguro e ti auguro di essere arricchito dalla comunione con gli altri presbiteri, in modo che l’accoglienza reciproca e l’amore vicendevole all’interno del presbiterio sia un segno per tutta la nostra Chiesa, chiamata a un’autentica comunione.

Nella tradizione cristiana, la Pentecoste che stiamo celebrando è l’«anti-Babele». Lo Spirito, il fiume di acqua viva promesso dal Signore Gesù e da lui effuso sul mondo nella glorificazione della Croce e della risurrezione (cf. Gv 7, 37-39), rende possibile la grazia di una comunione che è proprio il contrario dell’uniformità totalitaria: non uccide la varietà delle lingue, ma la raccoglie, mantenendone la diversità, intorno all’unico Vangelo (cf. At 2, 11). Proprio dello Spirito, anzi la sua «gioia segreta», «sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze» (b. Christian de Chergé).
Lo Spirito, eterno principio di comunione del Padre e del Figlio, ti mantenga sempre unito al Signore Gesù, fondamento e modello del ministero che ti viene affidato; sostenga la tua preghiera, specialmente quando, nei momenti di smarrimento o di stanchezza, questa diventa più difficile, e ci può capitare di non sapere «come pregare in modo conveniente; ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili» (Rm 8, 26). Lo Spirito, che articola la varietà dei doni nell’unità del Corpo di Cristo (cf. 1Cor 12), ti renda capace di servire generosamente il popolo santo di Dio, riconoscendo e valorizzando i doni di tutti per l’edificazione vicendevole. Lo Spirito, finalmente, alimenti la tua speranza e ti doni, nel tuo ministero di presbitero, di collaborare con gioia alla redenzione piena di tutta l’umanità e di tutta la creazione, fino a quando essa «sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8, 21).