Ordinazione presbiterale di don Enrico Gaffuri

Nella serata di sabato 11 giugno 2022 il vescovo Daniele ha presieduto nella Cattedrale di Crema la celebrazione dell’Eucaristia, nella solennità della Santissima Trinità, durante la quale ha ordinato presbitero il diacono Enrico Gaffuri, della parrocchia di S. Maria della Croce, in ministero presso la parrocchia di Montodine. Riportiamo di seguito il saluto iniziale e l’omelia del vescovo.

Saluto iniziale

Immersa nella comunione di amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in questa solennità della SS.ma Trinità, la nostra Chiesa di Crema accoglie con gioia da Dio il dono di un nuovo presbitero, don Enrico Gaffuri.
Saluto con gioia tutti voi, qui riuniti in Cattedrale, e quanti partecipano alla celebrazione attraverso la diretta streaming e la Radio Antenna5, non dimenticando i tanti, che, non presenti fisicamente, sono in comunione di fede e di preghiera con noi.
Saluto tutti i fedeli, le consacrate e consacrati, diaconi, le famiglie, e in modo particolare la mamma, le sorelle e il fratello di Enrico e tutti gli altri suoi famigliari. Con affetto speciale ricordiamo il papà Franco, che ha concluso pochi giorni fa il suo pellegrinaggio terreno e che dal cielo prega con noi e in modo speciale per il suo figlio Enrico.
Saluto i sacerdoti e i parrocchiani delle parrocchie più legate alla biografia del diacono Enrico, in modo speciale quelle nelle quali ha vissuto questi ultimi anni di preparazione all’ordinazione: l’unità pastorale di Ripalta Cremasca, quella di Crema Nuova – San Carlo – Santa Maria dei Mosi e, attualmente, la parrocchia di Montodine.
Un benvenuto speciale va naturalmente a tutti quelli che provengono da fuori diocesi, legati a diverso titolo a don Enrico: grazie per la vostra presenza che dilata i confini della nostra Chiesa; così come li dilata la presenza del carissimo padre Gianbattista Zanchi, missionario del PIME in Bangladesh (e già superiore generale dell’Istituto), originario di Montodine, che festeggia in questi giorni il suo ottantesimo compleanno!
Saluto la comunità del Seminario che a Lodi accoglie anche i nostri seminaristi, con i loro formatori, specialmente il rettore di Crema, don Gabriele Frassi.
I preti della nostra Chiesa di Crema e gli altri che si uniscono a questa celebrazione ci ricordano, e ricordano a te, caro Enrico, che non si diventa presbiteri isolatamente, ma nell’abbraccio di un presbiterio che questa sera ti accoglie con gioia: tutti ringrazio per l’accoglienza affettuosa che manifestate questa sera.
Nella fiduciosa certezza di essere in pace con Dio, per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, apriamoci con cuore rinnovato alla misericordia del Padre, perché sia Lui a dare pieno compimento, nella potenza dello Spirito, all’opera che ha incominciato in noi.

 

Omelia

1. Noi crediamo in un Dio che si è fatto conoscere a noi attraverso una storia d’amore, che raggiunge il suo culmine lì dove Gesù di Nazaret dona la sua vita sulla croce, manifestandosi come il Figlio che si abbandona pienamente al Padre (cf. Lc 23,46) e che, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li ama fino alla pienezza (cf. Gv 13,1).
E questa storia d’amore continua fino alla fine dei tempi, grazie all’effusione dello Spirito Santo: perché nello Spirito lo stesso amore di Dio per noi «è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5), come ci ha ricordato la parola di Paolo (cf. II lettura); di modo che, accogliendo questo dono come principio della nostra vita, anche attraverso di noi, sua Chiesa, continui a manifestarsi al mondo l’amore trinitario, da cui tutto scaturisce, e al quale tutto si orienta e si protende.
Solo stando dentro a questa storia d’amore può nascere una vocazione come quella del prete – e del resto, ogni vocazione, che scaturisce dalla scoperta stupefacente di questo amore che sempre ci precede, e suscita il desiderio di una risposta generosa, che diventa servizio ad altri, perché possano conoscere questo amore e corrispondervi pienamente.
Per entrare un po’ meglio dentro nella logica di un ministero presbiterale radicato nell’amore trinitario, mi sembra utile – spero soprattutto per te, carissimo don Enrico – continuare a seguire le parole dell’apostolo Paolo, che riprendo un po’ più da vicino.

2. «Giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (v. 1). Questa «pace con Dio» ci dice che l’importante l’ha fatto, e lo fa sempre Lui, il nostro Dio e Padre, per Cristo e nello Spirito Santo.
Non siamo noi i salvatori del mondo: non lo è il vescovo, non lo è un prete, per quanto bravo si impegni ad essere. Siamo anzitutto e sempre dei salvati: gente alla quale è stata usata misericordia. Ogni prete (e anche ogni vescovo, naturalmente) dovrebbe imparare a memoria, e ripetere spesso, le parole che Paolo scrive a Timoteo:

“Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io” (1Tim 1,12-15).

Anche se Dio ci ha preservato dall’essere stati «un bestemmiatore, un persecutore e un violento», la situazione che Paolo descrive è, in modi diversi, quella di tutti noi. E questo, e soltanto questo, ci dà pace: non la nostra bravura, non i nostri meriti, non il nostro impegno; solo la misericordia gratuita di Dio per noi, di cui ci è chiesto di essere testimoni: per un prete, in modo particolare, anche se non esclusivo, nel sacramento della penitenza.
Possiamo addirittura «vantarci» di questa condizione (cf. v. 2). Paolo parla spesso del «vantarsi»: ne parla perché sa che è pericoloso «vantarsi», gonfiarsi di vuoto orgoglio (cf. 1Cor 5,2.6). Se c’è qualcosa di cui possiamo legittimamente vantarci, è solo di ciò che Dio ha fatto in noi e per noi.
Sì: scrivendo ai Corinzi, Paolo si vanta di cose che sembravano importanti agli occhi miopi dei suoi destinatari: ma quello che fa l’apostolo è un discorso paradossale, è un discorso «da pazzo» (cf. 2Cor 12,11). Paolo sa bene che l’unica cosa di cui può seriamente vantarsi sono le sue «debolezze», sono le cose umilianti che gli sono capitate (cf. 12,32 s.), è la misteriosa «spina nella carne» (cf. 13,7). Perciò, dice,

“mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte” (13,9-10).

Di cose spiacevoli, di insuccessi, di fatiche, di incomprensioni, di arrabbiature, di delusioni… il ministero di un prete è pieno. Aggiungo che non c’è solo questo, ci mancherebbe! Ci sono anche, per grazia di Dio, gioie, consolazioni, apprezzamenti, iniziative riuscite…
Il fatto è che noi siamo tentati di misurare il nostro successo soprattutto su queste cose, e di dimenticare ciò che pure proclamiamo ogni volta che saliamo all’altare e che, per il ministero che ci viene donato, presiediamo la celebrazione dell’Eucaristia: che, dal punto di vista umano, è celebrazione di un fallimento, è il memoriale della passione e morte vergognose di Gesù: passione e morte gloriose, certo, ma che riconosciamo tali solo in virtù della fede.
Solo con questa fede avvertiamo la verità di ciò che ancora abbiamo sentito da Paolo: che noi, cioè, «ci vantiamo nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (Rm 5,3-4).
Sì, se noi preti possiamo essere uomini di speranza, è solo perché la lasciamo maturare in noi, questa speranza, non a partire dai nostri successi, ma a partire dal modo in cui la Pasqua del Signore prende forma nella nostra vita. Per questo è così importante anche per noi personalmente l’Eucaristia, che ogni giorno siamo chiamati a presiedere, celebrandola con le nostre comunità. È solo lì che può prendere corpo la nostra piena conformità al Signore Gesù, è solo lì che può maturare una speranza ben più solida dei nostri facili e passeggeri entusiasmi.

3. E come fare a essere un prete capace di sopportare le tribolazioni, anzi di «vantarsi» per esse e testimoniare così una speranza radicata nell’amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito? Suggerisco a te, caro don Enrico – per finire – un esempio che mi è particolarmente caro: quello dell’apostolo Barnaba, di cui oggi abbiamo celebrato la memoria.
Barnaba è l’uomo della paraklesis (cf. At 4,36), cioè dell’esortazione, dell’incoraggiamento, della consolazione. È il ministro di Dio e della comunità che sa vedere quanto c’è di buono negli altri, che sa valorizzarlo e promuoverlo; è il discepolo generoso, che si spoglia dei suoi beni per condividerli con la comunità; è colui che per primo sa riconoscere il potenziale di Paolo, lo introduce presso gli apostoli, lo va a cercare quando c’è da consolidare e far crescere la comunità di Antiochia; è il missionario che vive il coraggio dell’annuncio del vangelo in situazioni nuove; è l’apostolo che sa passare anche in secondo piano, proprio perché sarà poi Paolo a «crescere» nella missione cristiana…
Ed è l’uomo paziente, che vorrebbe offrire a un altro collaboratore, Giovanni Marco, una nuova possibilità, dopo il fallimento della prima avventura missionaria… E qui è da ricordare che proprio a questo riguardo Barnaba è anche protagonista di un litigio clamoroso e doloroso con Paolo (cf. At 15,36-40), un litigio che provocherà purtroppo la fine della loro collaborazione… E il bello è che Barnaba, quest’uomo pieno di Spirito Santo e fede (cf. At 11,24), aveva probabilmente ragione! E Paolo lo riconoscerà anni dopo, mandando a chiamare presso di sé proprio quel Giovanni Marco che era stato causa della sua separazione da Barnaba (cf. 2Tm 4,11)!
Insomma, se c’è un esempio di discernimento, di mite generosità, di coraggio, di collaborazione, di spirito di comunione, di «pazienza e virtù provata» (cf. II lettura), questi è proprio Barnaba.
Mi piacerebbe che il tuo ministero di prete, caro don Enrico, prendesse almeno qualcosa da lui, per essere un prete gioioso, sereno, generoso, capace di comunione, profondamente inserito nel presbiterio diocesano, un prete che sa gioire con chi gioisce e piangere con chi piange (cf. Rm 12,15), che sa farsi non padrone della fede, ma collaboratore della gioia dei fratelli (cf. 2Cor 1,24), servitore umile del loro incontro salvifico con Gesù Cristo.
È ciò che ti auguriamo questa sera, accompagnandoti e sostenendoti con la nostra preghiera.