Omelia per il mandato agli operatori pastorali

Cattedrale di Crema, 25 settembre 2019

La missione che Gesù affida ai Dodici si riassume, in definitiva, in due espressioni, riportate nell’ultima frase del vangelo che abbiamo ascoltato. La rileggo in una traduzione più aderente all’originale: «Usciti, giravano di villaggio in villaggio, evangelizzando e guarendo ovunque» (Lc 9, 6; cf. anche il v. 2).
«Evangelizzare» e «guarire»: sono questi i verbi riassuntivi della missione: quella dei Dodici ma, prima ancora, quella di Gesù. È caratteristico di Luca riunire queste due espressioni, che hanno il corrispettivo nell’atteggiamento delle folle, venute da Gesù «per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie» (5, 15; cf. 6, 18). E anche quando Gesù invierà altri settanta o settantadue discepoli, la missione sarà riassunta sempre allo stesso modo: «guarite i malati… e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”» (10, 9).
Vi possiamo trovare le indicazioni di fondo di un programma pastorale sintetico, e che rimane determinante anche per noi oggi. Annunciare il Vangelo rimane il cuore della missione, la ragione stessa dell’esistenza della Chiesa. L’annuncio, a sua volta, contiene in sé una efficacia terapeutica: è annuncio che salva, e per questo «annunciare» e «guarire» non sono due azioni giustapposte, semplicemente accostate l’una all’altra; sono in qualche modo due risvolti dell’unica azione, dell’unica missione, e sono anche una sorta di «criterio di controllo».
Un annuncio che non guarisce, che non risana, che non offre prospettive di una vita «salvata», rischia di rimanere parola vuota, esposizione di belle idee che però rapidamente scivolano via. Una guarigione che non conduce – con i tempi e secondo le modalità che solo lo Spirito conosce – all’incontro con Gesù Cristo e a scoprire la bellezza e la gioia del Vangelo, rimane un’azione solo umana, che non conduce a quella pienezza di vita che Dio vuole offrire a tutti, proprio attraverso l’incontro con il suo Figlio (cf. 1Tm 2, 3-6).
In definitiva, tutto ciò che ci disponiamo a vivere nell’anno pastorale che ci sta avanti, ogni nostro impegno e attività, tutto dovrà misurarsi sempre con questo criterio: stiamo annunciando il Vangelo di Gesù Cristo, e lo stiamo facendo anzitutto da persone consapevoli di essere state risanate dal Signore? E testimoniamo e annunciamo il Vangelo in modo che sia «risanante», che offra agli uomini e donne del nostro tempo – forse non sempre consapevoli delle patologie di cui soffrono – una possibilità, un orizzonte di vita piena?

Ma le parole con le quali Gesù affida ai Dodici la missione ci invitano anche a riflettere sui mezzi di questa azione evangelizzatrice, e sui luoghi nei quali essa si svolge.
Per quanto riguarda i mezzi, è presto detto: la povertà più radicale; ancora più radicale che negli altri vangeli, dove almeno il bastone viene concesso (cf. Mc 6, 8): qui, neppure quello! Leggiamo questa radicalità per lo meno come un avvertimento: a ricordarci che non è la potenza dei mezzi umani a rendere efficace l’annuncio.
Di qualche mezzo c’è pur bisogno: ma sappiamo bene che i mezzi, le strutture, le organizzazioni possono diventare anche un intralcio, e che le cure che richiedono possono diventare così assorbenti da trasformare i mezzi in fini. L’immagine di Davide, che si libera dell’ingombrante armatura datagli da Saul, e che va ad affrontare il suo temibile avversario armato solo di cinque sassi e della sua fionda (cf. 1Sam 17, 38-40), rimane sempre un avvertimento efficace, per imparare un uso «leggero» dei mezzi di cui pure disponiamo.
Sì, è vero: il vangelo dice anche che Gesù diede agli apostoli «forza e potere»: ma è chiarissimo, si tratta unicamente di forza e potere «su tutti i demòni e di guarire le malattie» (Lc 9, 1), forza e potere solo sul male che sfigura l’uomo, e su ciò che è alla radice di questo male. Anche Gesù non ha voluto usare in altro modo il potere che pure aveva dal Padre: e sappiamo bene quale è stata la sua risposta, quando, sulla croce, è stato esposto alla tentazione di usare questo potere per sé stesso, o per dare una dimostrazione di forza a quanti lo avevano condotto sulla croce.

Ma vorrei aggiungere ancora qualche parola intorno ai luoghi dell’annuncio terapeutico, salvifico, che il Signore affidò allora ai Dodici, e oggi ancora affida alla sua Chiesa, e a noi. Si dice che i Dodici «giravano di villaggio in villaggio»: anche in questo caso, la prima cosa da notare è che essi facevano ciò che più volte viene detto di Gesù (cf. 8, 1; 13, 22).
I Dodici percorrono il territorio accostandosi agli spazi dell’esistenza quotidiana. I villaggi, i paesetti e le cittadine della Galilea, quelli stessi che Gesù ha frequentato, non sono centri particolarmente importanti: ma sono i luoghi di vita dell’uomo e della donna, sono le loro case (cf. 9, 4), sono gli ambiti nei quali il vangelo va incontro all’uomo riuscendo a interpellarlo nella sua vita di ogni giorno.
Come ho già avuto modo di dire, il grande merito della parrocchia, nel corso dei secoli, è stato quello di «intercettare» la vita degli uomini proprio in questa dimensione quotidiana, offrendo loro la grazia dell’incontro con il Signore, con la sua Parola e i suoi doni di salvezza. C’è qui un valore della parrocchia, questa realtà di Chiesa «tra le case» degli uomini, che non possiamo in nessun modo trascurare o deprezzare.

Al tempo stesso, si dice che i Dodici andavano «dappertutto». Questo avverbio sembra preannunciare la missione apostolica dopo la Pasqua, quando la «corsa della Parola» valica i confini della Galilea e della Terra santa, e si espande nel mondo. L’inizio dell’anno pastorale in queste settimane, nelle quali ci prepariamo alla grazia della beatificazione di un missionario, padre Alfredo Cremonesi, mentre sta per incominciare l’Ottobre missionario straordinario, voluto da papa Francesco, ci chiede di prendere molto sul serio questo «dappertutto»: e ci spinge, riprendendo la parola che c’è anche nel vangelo, a «uscire», appunto come i Dodici (cf. 9, 6).
Uscire, come spesso si dice, dalle nostre abitudini, uscire un po’ dai sentieri sempre battuti e tracciati con sicurezza, per andare verso terreni nuovi – che non sono necessariamente lontani, come era la Birmania quando, poco più di un secolo fa, padre Alfredo si imbarcò per la sua missione.  
Il «dappertutto» è per noi anche molto vicino: ma abbiamo bisogno di imparare a vederlo meglio, e abbiamo bisogno del coraggio apostolico che ci spinge a incontrarlo, sapendo anche – ce lo ricorda sempre il Signore – che il Vangelo può essere rifiutato. Se ha un senso l’opzione delle «Unità pastorali», è precisamente anche quello di aiutarci a uscire, di ricordarci quel «dappertutto», che è il campo aperto alla missione che il Signore ci affida.
Usciamo anche noi, tra i nostri paesi grandi e piccoli, verso i quali ancora Gesù ci manda ad annunciare un vangelo di guarigione e di salvezza; e restiamo disponibili ad andare, come singoli e come comunità, «dappertutto», ovunque lo Spirito vorrà spingerci per vivere la grazia della nostra testimonianza e della nostra missione.