OMELIA DEL VESCOVO DANIELE PER LA MESSA DELLA ‘PASQUA INTERFORZE’

Cattedrale di Crema, 12 marzo 2018

È sorprendente ascoltare Dio che promette un cambiamento di portata tale che solo il linguaggio della creazione può esprimerlo: «Ecco, io creo nuovi cieli e nuova terra» (Is 65, 17). La creazione non è semplicemente trasformazione di qualcosa che già esiste, ma significa far esistere ciò che prima non esisteva; è per questo che la promessa di Dio non può essere capita semplicemente confrontandosi con il passato. E infatti nella prima lettura il profeta continua dicendo: «Non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare» (v. 18).
Insomma, quel che Dio promette – in questo caso, rivolgendosi al popolo di Israele, che ha subìto la prova drammatica dell’esilio – è appunto un mondo nuovo, una nuova vita, un’umanità nuova.
Ora, questa promessa ci pone, mi sembra, almeno due problemi. Il primo riguarda il suo effettivo compimento; in altre parole, possiamo chiederci: Dio ha effettivamente compiuto questa promessa? Oppure siamo ancora in attesa di vederla realizzata?

Poiché ci stiamo preparando a celebrare la Pasqua, siamo aiutati a trovare la risposta, che è appunto la Pasqua stessa, la morte e risurrezione di Gesù: questa, per i cristiani, è la realizzazione della promessa di Dio. Nel suo Figlio Gesù, morto e risorto, Dio ha incominciato a creare il mondo nuovo, i cieli nuovi e la terra nuova.
Che uno di noi, Gesù di Nazaret, un uomo che ha condiviso in tutto la nostra esistenza, fino a prendere su di sé il destino di una morte crudele e infamante, abbia vinto la morte e sia entrato, con questa nostra stessa umanità, nella pienezza della vita di Dio – ebbene, questa, per il cristiano, è precisamente la garanzia della novità assoluta di Dio, del fatto che la creazione nuova non è più un sogno lontano, ma ha incominciato a esistere.
Ha incominciato, ho detto: perché certamente non possiamo dire che sia giunta al suo compimento. Non viviamo in un mondo già entrato completamente nella gloria e nella vita di Dio; sperimentiamo, senza dubbio, molte realtà che ancora resistono alla novità di Dio, la nostra esperienza è quella di una creazione che ancora, come dice san Paolo, «geme e soffre» in attesa di trasformarsi pienamente nei «cieli nuovi e terra nuova» annunciati dal profeta.

E questo ci porta al secondo interrogativo, che scaturisce dalla promessa di Dio che abbiamo ascoltato nella prima lettura, e che formulo così: se Dio, a partire dalla Pasqua di Gesù, sta effettivamente realizzando la promessa dei cieli nuovi e della terra nuova, noi come ci poniamo, di fronte a tutto questo?
Il racconto che abbiamo ascoltato nel vangelo ci aiuta a trovare almeno un inizio di risposta. È il racconto di un funzionario di corte – notate che negli altri vangeli il protagonista di questo episodio è un militare, un centurione romano… – che va da Gesù a chiedergli la guarigione del suo figlio gravemente malato.
Questo funzionario, se era un ebreo o un simpatizzante della fede ebraica, come ce n’erano al tempo, forse aveva in mente la promessa di Dio che abbiamo ascoltato dal libro di Isaia: «Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni…» (Is 65, 20).
Promessa rischiosa e che sappiamo, ahimè, non ancora realizzata: io stesso, pochi giorni fa, ho benedetto prima del funerale un bambino morto dopo soli cinque mesi di vita…
In ogni caso, questo papà va da Gesù come per chiedere conto, in un certo senso, della promessa di Dio.
È comprensibile: noi vorremmo vedere i «segni», come nota Gesù, vorremmo avere delle garanzie sul fatto che la promessa di Dio non è invano, che i cieli nuovi e la terra nuova stanno effettivamente vedendo alla luce. Come non vorrebbe vedere questi segni un papà, angosciato per il figlio che rischia di morire? Ma, per quanto angosciato – o, forse, proprio in questa situazione di angoscia – questo papà fa la cosa essenziale, e cioè crede, si fida di Gesù; e questa fede ottiene ciò che cerca, perché appunto il suo figlio guarisce.
Notiamo una cosa: molte volte, anche nella Bibbia, si arriva a credere dopo che si è visto un «segno». Anche nel vangelo di Giovanni lo si vede abbastanza spesso; ma proprio questo vangelo porta a considerare le cose anche in un modo un po’ diverso: come con questo padre, il quale crede alla parola di Gesù prima di aver visto il segno, e cioè la guarigione del figlio.
Certo, crederà anche dopo, e a maggior ragione: ma è preziosissima questa frase dell’evangelista: «Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino» (v. 51).
È una frase che può riassumere la risposta alla domanda che facevo poco fa: come ci poniamo, di fronte alla promessa straordinaria dei «cieli nuovi e terra nuova» che, secondo la fede cristiana, Dio ha incominciato a realizzare con la Pasqua del suo Figlio?
La risposta si può sintetizzare così: credendo, e mettendoci in cammino.
Credendo, appunto, a un Dio fedele alle sue promesse, alle quali dà compimento, come ha incominciato a fare proprio nel suo Figlio Gesù, crocifisso e risorto; ma anche mettendoci in cammino, e cioè operando nel nostro mondo e nella nostra vita secondo questa promessa di Dio.
Credendo, anche quando ci sembra che Dio non esaudisca tutte le nostre richieste, ma appunto nella fiducia che Egli è fedele alla sua promessa; camminando, cioè diventando anche noi, per grazia e dono di Dio, con la nostra vita di credenti, strumento di realizzazione dei «cieli nuovi e terra nuova» che vanno crescendo nel mondo, finché la Pasqua del Signore sia compiuta perfettamente e la promessa di Dio sia realizzata fino in fondo.