Natale 2021 – Messa del giorno

Omelia del vescovo Daniele per la Messa del giorno di Natale, celebrata nella Cattedrale di Crema il 25 dicembre 2021.

 

Quando ci alziamo velocemente da terra, ad esempio nel momento del decollo di un aereo, lo sguardo cambia rapidamente prospettiva. L’occhio perde di vista i dettagli delle cose viste da vicino, ma abbraccia un panorama sempre più ampio, e da angolazioni nuove e diverse.
Succede così anche nella celebrazione del Natale. Nella Messa della notte abbiamo contemplato la mangiatoia con il Bambino che vi è stato deposto amorevolmente dalla Madre (cf. Lc 2,7). Nella Messa dell’aurora ci muovevamo ancora intorno al presepio, guardandolo attraverso lo sguardo dei pastori che, rispondendo all’annuncio dell’angelo, vanno «senza indugio» fino a Betlemme, e trovano «Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia» (Lc 2,16).
Adesso, celebrando la Messa del giorno, ci rendiamo conto che abbiamo preso quota molto rapidamente: non solo non vediamo più da vicino il presepe, ma non vediamo più nemmeno solo il nostro pianeta o la nostra galassia – o meglio, vediamo ancora tutto, ma dentro a un orizzonte vastissimo: un orizzonte che risale fino al «principio» (ma non è neppure soltanto il «principio» fisico dell’universo che conosciamo, perché lo sguardo cerca di scorgere il Principio assoluto, quel Principio che fa esistere «tutto ciò che esiste» [cf. Gv 1,3]) e vuole puntare fino alla «fine» – una «fine» che non è nel tempo o del tempo, ma che vuole piuttosto afferrare il senso di tutto, da quello dell’esistenza di ciascuno di noi a quello (di nuovo) di «tutto ciò che esiste».

È soprattutto il Prologo del vangelo di Giovanni, che è stato proclamato poco fa, a farci salire così rapidamente e così in alto. In realtà, però, questo testo così alto e denso non ci allontana dal presepio. Questo testo ci propone di abbracciare con lo sguardo il Principio e la Fine, contemplando il mistero della Parola – qui espressa italianizzando il latino verbum, il «Verbo», che significa, appunto, la «parola».
Questa Parola è molto vicina a Dio; addirittura, dice l’evangelista, questa Parola «era Dio» (Gv 1,1); il che vuol dire: Dio è un Dio che parla, che stabilisce una comunicazione, vuole entrare in relazione. Lo ha fatto sempre e nei modi più diversi – ce lo ha ricordato la lettera agli Ebrei, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura; ma lo ha fatto in modo pieno e definitivo proprio in quel Bambino che contempliamo celebrando oggi il Natale.
Lo ha fatto – ce lo ricorda ancora il vangelo di Giovanni – entrando in relazione con la «carne», anzi «facendosi carne»: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (1,14). Per apprezzare meglio (per quel che possiamo) la portata di questa frase, ricordiamo che nella Bibbia «Parola» e «carne» stanno in contrapposizione come, rispettivamente, «forza» e «debolezza», «potenza» e «fragilità». La Parola di Dio è realtà potente, è Parola che crea e salva; la «carne», nella Bibbia, indica la fragilità della creatura che, dice un passo di Isaia, è come l’erba del campo, che oggi c’è e domani viene tagliata via e secca (cf. Is 40,6-8).
Ma a partire dal presepio, a partire dal Natale, «Parola» e «carne» non sono più lontane e contrapposte: nel Figlio di Maria, Gesù, deposto nella mangiatoia, «Parola» e «carne» si sono unite per sempre: al punto che, ormai, noi non dobbiamo cercare più Dio chissà dove. Dio lo incontriamo lì, dove Parola e carne si sono definitivamente unite, nel Figlio di Dio che ha voluto fare sua la nostra umanità.
Dio non possiamo e non dobbiamo più cercarlo inseguendo i nostri sogni di potenza, di trionfo, di forza e di successo – sogni spesso malati, perché tentati di cercare queste cose a spese della giustizia, della verità, della rettitudine… Dio, dobbiamo cercarlo nella «carne» che il suo Figlio ha voluto assumere, provando su di Sé, fino alla fine – fino alla morte e alla morte di croce (cf. Fil 2,8), come la parola della fede continua a ricordarci – che cosa significa questa debolezza.
Non è che Dio si sottragga a quelle manifestazioni della nostra umanità che più spontaneamente sentiamo come ‘positive’: scorgiamo qualcosa di Dio, certo, anche nelle realizzazioni belle e significative che siamo in grado di fare (per suo dono, del resto): penso, ad esempio, alle grandi opere d’arte, ma penso anche ai successi dell’intelligenza, della scienza, della tecnica… Anche queste cose, senz’altro, sono espressione della «carne» alla quale Dio ha voluto unirsi, nel dono e mistero che chiamiamo appunto la sua «incarnazione». Ma la tentazione di identificare Dio con il successo, con il potere, con la potenza di questo mondo è troppo forte; e porta con sé il rischio – che vediamo continuamente – che chi non ce la fa, chi resta indietro, chi fatica di più, per le ragioni più diverse, venga poi scartato, tagliato fuori, dimenticato e schiacciato.

Per questo Dio abbraccia la nostra «carne» dove essa più manifesta appunto la «debolezza», la fragilità. Per abbracciare tutti, e per portare tutti alla pienezza della vita, Dio incomincia da chi è in ultima posizione; e nel suo Figlio Gesù, nel Bambino posto nella mangiatoia, ci dà appuntamento lì dove la debolezza della carne è particolarmente evidente: ci dà appuntamento – per fare solo qualche esempio, richiamandoci a ciò che viviamo in questi tempi – dove la dignità e la sicurezza del lavoro e dei lavoratori sono messi in questione; ci dà appuntamento in chi è vittima della «cultura dello scarto», tante volte denunciata da papa Francesco; ci dà appuntamento nella solitudine dei vecchi; nella vita dei non nati; nelle donne vittime di violenza; nelle famiglie ferite; nei popoli e nelle persone che fuggono la miseria, le violenze, i cambiamenti climatici; in chi patisce la malattia e la disabilità; nei prigionieri; nelle vittime della tratta o degli abusi di ogni tipo (compresi, ahimè, quelli che avvengono nella Chiesa…); in chi è perseguitato per la propria fede o per il proprio impegno per la giustizia e la verità…
Facendosi «carne», è soprattutto in queste e altre simili situazioni che Dio ci vuole incontrare, perché possiamo incontrarlo come il Dio che libera e salva, il Dio che vuole la gioia dei suoi figli e desidera che questo mondo anticipi, pur nella sua debolezza, quella vita eterna per la quale egli non ha esitato a donare il proprio Figlio.
Sì: da quando «il Verbo si è fatto carne», Dio non può essere più considerato estraneo a tutto ciò che in noi è fragilità, fatica, tribolazione e attesa di una redenzione. Proprio in quella «carne» Dio aspetta anche noi, per renderci partecipi della sua gioia e della sua promessa di vita eterna; ma anche perché siamo anche noi strumento di quella gioia e di quella promessa, e così nessuno sia escluso dalla luce, dalla pace, dalla vita piena che il Bambino nato da Maria, dal suo presepe, annuncia e dona al mondo.