Messa per l’inizio dell’anno accademico dei Seminari

Venerdì 24 settembre 2021, in Cattedrale a Crema, è stata celebrata la S.Messa dello Spirito Santo per l’inaugurazione dell’anno accademico 2021-22 degli Studi Teologici riuniti di Crema, Cremona, Lodi, Pavia e Vigevano: hanno concelebrato S.E. Mons. A. Napolioni, vescovo di Cremona; S.E. Mons. M. Malvestiti, vescovo di Lodi; S.E. Mons. C. Sanguineti, vescovo di Pavia; S.E. Mons. M. Gervasoni, vescovo di Vigevano, i rettori dei Seminari e i Professori, con i seminaristi delle cinque diocesi. Il vescovo Daniele ha presieduto la celebrazione e tenuto l’omelia, che riportiamo di seguito.

 

C’è, nel vangelo appena ascoltato (Lc 9,18-22), una sorta di tracciato, adatto a indicare un possibile itinerario di studio, qual è quello che stiamo avviando in questi giorni: un itinerario che ritengo buono per docenti e studenti, e che certamente fa bene anche a me vescovo – e, spero, anche ai miei confratelli.

La prima tappa di questo itinerario (prima, non necessariamente in senso cronologico) è la preghiera. Sappiamo che il terzo evangelista è particolarmente sensibile alla preghiera di Gesù; ma qui ci colpisce, in modo particolare, il fatto che la preghiera sia l’ambiente, il contesto, che prepara la domanda centrale della teologia cristiana, la domanda cristologica per eccellenza; domanda che non sgorga da una curiosità qualsiasi, ma da quel mistero che è il dialogo tra Gesù e il Padre.
Dalla preghiera può sgorgare un domandare che è tutt’altro che ozioso, un domandare che non deriva da curiosità superficiale o dal mercato delle opinioni, da ciò che dicono le folle, ma da quel dinamismo della fede che va in cerca dell’intelligenza, e che è la radice di ogni teologia.
E mi sembra significativo il fatto che Gesù sia presentato in preghiera «da solo» (così, come fa anche la Vulgata, si potrebbe tradurre l’espressione usata dall’evangelista; e non soltanto con «in un luogo solitario»); e però, al tempo stesso, l’evangelista dice che «i discepoli erano con lui» (cf. 9,18): come a dire che questa preghiera filiale diventa anche la preghiera della comunità dei discepoli, la preghiera ecclesiale; e il lasciarsi interrogare della fede, partendo dalla preghiera, non è allora l’avventura di qualche solitario particolarmente geniale o originale; c’è un’intelligenza orante e credente della fede, che è dono e compito affidato alla Chiesa, e diventa percorso condiviso, ad esempio tra professori e studenti, ma anche nel lavoro comune dei docenti, nel confronto tra studenti, in uno stile di «comunità teologale» perché, prima di tutto, comunità orante.

E il secondo passo è quello della domanda. Come è stato notato, Gesù pone molte domande, nei racconti evangelici. E credo che la cosa sia incoraggiante, e sia anche la risposta da dare a chi, eventualmente, dovesse ritenere improprio il sollevare domande, all’interno della fede, e giudicare così improprio il compito stesso della teologia e del suo studio.
Come sappiamo, quello della quaestio, della domanda, è uno degli strumenti fondamentali della teologia medievale. Tommaso, nella Summa theologiae, allinea più di cinquecento quaestiones, ma se calcoliamo gli articoli nei quali sono suddivise, si arriva a oltre duemilacinquecento! e pensare che si tratta di un’opera rimasta incompiuta…
È persino eccessivo, questo domandare, e diventerà anche oggetto di ironie fin troppo facili, quando si arriverà alla tarda scolastica. Ma se teniamo a mente che il domandare deriva, prima di tutto, da Gesù stesso, lo ricollochiamo nel punto giusto: nel punto, cioè, nel quale non si tratta tanto di speculare, di fare sfoggio di sottigliezza mentale, quanto di lasciarsi mettere in questione, di lasciarsi raggiungere dalla domanda che non interpella solo l’intelligenza ma chiede, in definitiva, la risposta di una vita e invita a un’adesione che mi mette completamente in gioco.
Resta il fatto che, se non ci sono domande previe, mettersi a studiare è immensamente faticoso – ed è faticoso, per chi insegna, trasmettere qualcosa a studenti che non hanno domande… Allo Spirito, che invochiamo in questa liturgia, chiediamo proprio la grazia di suscitare in noi la domanda, e le domande, che aprano insieme il cuore, la mente, gli affetti… insomma tutto ciò che siamo.

Poi, certo, c’è anche la risposta. L’eterno questionare che non approda a nessuna risposta rischia di essere snervante quanto l’assenza completa di domande.
Soprattutto, però, vorrei sottolineare che la risposta di cui parliamo – che è, in definitiva, la risposta della fede – è prima di tutto un dono di Dio. Come sappiamo, nel racconto di Matteo parallelo al brano che abbiamo ascoltato, la cosa è detta in modo esplicito: né carne né sangue (cioè la fragilità creaturale) hanno permesso a Pietro di rispondere alla domanda di Gesù, ma il dono del Padre (cf. Mt 16,17); la risposta, in definitiva, la suscita in noi lo Spirito.
Il che, peraltro, non vuol dire che l’impegno della ricerca sia inutile: detto più banalmente, non vuol dire che non serva studiare, per arrivare alla risposta: lo studio ci vuole, eccome!
Mi sembra utile ricordare qui un’abitudine di sant’Agostino: quando, nei suoi sermoni al popolo, commentando qualche testo della Scrittura, si imbatte in un passaggio particolarmente ostico, difficile, Agostino ricorre spesso al linguaggio evangelico della preghiera di domanda: così, ad es., commentando la parola dell’evangelista Giovanni secondo cui «non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato» (cf. Gv 7,39), Agostino spiega che c’è un motivo, per cui lo Spirito non era stato ancora effuso: «e forse, se cerchiamo, [Dio] ci aiuterà a trovarlo; e se bussiamo, ci aprirà, perché possiamo entrare» (S. Agostino, In Io. tract. 32,6).
Insomma, questo cercare, chiedere, bussare in cerca della risposta è, al tempo stesso, impegno intellettuale, a volte anche molto arduo, e che richiede studio paziente e appassionato – e domanda a Dio, perché la sua luce ci illumini a ci apra la via di una qualche intelligenza del suo «disegno amoroso» (cf. Ef 1,5).

Ma c’è ancora un passo, che chiamerei al tempo stesso di trascendimento e di verifica. Gesù non rifiuta la risposta di Pietro: però subito, alla figura del «Messia di Dio» sovrappone quella più misteriosa del «Figlio dell’uomo»: sovrapposizione che possiamo vedere come un invito a ricominciare, in un certo senso, tutto il ciclo.
Nel quarto vangelo si trova la domanda: «Chi è mai questo figlio dell’uomo?» (cf. Gv 12,34); e la domanda sollecita di nuovo la riflessione della fede, in un contesto di preghiera, alla ricerca di risposte che sono frutto insieme del nostro impegno di studio e della luce dello Spirito; e tutto questo perché, poi, il mistero del Cristo, del Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, ancora oggi possa essere annunciato a tutti…
Ma il trascendimento significa anche che le risposte della fede non possono essere affidate solo al dinamismo intellettuale. Chi sia in verità il «Cristo di Dio», chi sia il «Figlio dell’uomo», lo si potrà vedere e comprendere, in definitiva, solo quando Gesù dovrà «soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (Lc 9,22).
Non c’è cammino serio di riflessione teologica che non ci porti lì: tanto più che poi Gesù continuerà dicendo subito a tutti: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (9,23).
Anche tutto l’impegno dello studio e insegnamento della teologia, e di tutte le altre discipline connesse, serve in definitiva a condurci sempre al cuore del mistero pasquale: dove, alla fine, ciò che conta non è il conoscere Gesù Cristo «secondo la carne», ma il diventare, in lui, «nuove creature» (cf. 2Cor 5,16-17) e renderci così disponibili, secondo la chiamata di Dio, a essere «suoi collaboratori» (cf. 2Cor 6,1; 1Cor 3,9), per cooperare alla gioia dei nostri fratelli (cf. 2Cor 1,24).