Messa nella Giornata provinciale del Ringraziamento – Omelia

Cattedrale di Crema, 17 novembre 2019

«A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità» (2Ts 3, 12): così abbiamo sentito, nell’ultima frase della seconda lettura.

Chi erano «questi tali» che, nella comunità cristiana di Tessalonica, fondata qualche anno prima da Paolo, vivevano «una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione» (v. 11)? Erano cristiani, certamente: probabilmente ‘abbagliati’ dalla convinzione che il ritorno ultimo di Gesù nella gloria, e la «fine del mondo», fosse imminente, questione di qualche anno, se non di qualche mese. Da questa convinzione tiravano la conclusione: a che serve lavorare, a che serve qualsiasi tipo di impegno legato a questo mondo, se questo mondo sta per finire? E così non lavoravano: dal momento però che, in attesa della fine del mondo, dovevano pur continuare a mangiare, pretendevano di vivere alle spalle e a spese della comunità.
Quando Paolo scrive questa seconda lettera ai cristiani di Tessalonica, il problema non era nuovo. A quanto pare, anzi, l’apostolo ne aveva parlato sin da quando aveva fondato la comunità, dando ai cristiani (certamente non solo a Tessalonica, ma in tutte le sue comunità) questo criterio semplice e fondamentale di vita: «chi non vuole lavorare, neppure mangi» (v. 10). Non solo: Paolo aveva dato anche l’esempio, e ricorda ai Tessalonicesi: «non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi (nel plurale probabilmente dobbiamo metterci anche i collaboratori di Paolo), né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi» (vv. 7-8); e questo benché Paolo più volte, nelle sue lettere, ricordi che chi lavora per il Vangelo ha il diritto, dice, di «vivere del Vangelo»; e ci sono stati dei tempi nei quali Paolo ha accettato anche l’aiuto economico delle comunità cristiane, per potersi dedicare totalmente al suo ministero apostolico.
In ogni caso, il punto è che il cristiano, anche quando sa che questo mondo è «provvisorio», anche quando sa di essere in cammino verso la «patria del cielo», anche quando è convinto che la vita terrena è pellegrinaggio orientato alla vita eterna, non assume un atteggiamento da disertore, non scappa via dagli impegni di questo mondo.

Il problema è presente anche nel vangelo. Gesù, ai discepoli che venivano dalla campagna e che rimanevano a bocca aperta davanti al tempio di Gerusalemme, che forse non avevano mai visto prima, preannuncia la distruzione del tempio e della città. Anche i primi lettori del vangelo di Luca probabilmente vivano dopo il 70 d. C.: ciò che Gesù preannuncia, per loro era un avvenimento già avvenuto da qualche anno. Quelle parole, però, potevano riguardare anche tutti gli altri scenari preoccupanti, che si succedono regolarmente nella storia: guerre, rivoluzioni, malattie, sconvolgimenti di ogni genere, persecuzioni…
Che fare, di fronte a queste realtà? I discepoli sono curiosi di sapere «quando accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere» (Lc 21, 7). Perché questa curiosità? Probabilmente, per un motivo molto semplice, e anche comprensibile: per riuscire a mettersi in salvo, per tentare di fuggire da questi avvenimenti.
Ma la risposta di Gesù è chiara: il discepolo, il cristiano, non è uno che fugge, non è uno che diserta. La storia è impastata di queste cose, porta sempre con sé vicende complicate, a volte anche dolorose, spesso preoccupanti. Ma per il fatto che Dio stesso è entrato nella nostra storia, in Gesù Cristo; e per il fatto che lui, il Signore Gesù, ha abitato questa storia prendendola sul serio (e anche lavorando con le sue mani!), per il fatto che non si è voluto mettere in salvo, non è fuggito di fronte al pericolo o alla persecuzione, anche quando avrebbe potuto farlo – anche quando, ricordate, gli dicevano, sotto la croce: «Scendi dalla croce, salva te stesso…» – per tutti questi motivi il cristiano è appunto uno che non fugge, non abdica dalla responsabilità di vivere in questo mondo prendendone sul serio tutti gli impegni. «La nostra patria è nei cieli» (Fil 3, 20), dice Paolo scrivendo ai Filippesi: ma finché siamo in questo mondo, «chi non vuole lavorare, neppure mangi»; e dunque ciascuno si guadagni «il pane lavorando con tranquillità».

Proprio del pane Paolo parla due volte, nella seconda lettura: con il comando che ho appena citato, e prima ancora, quando ricorda che né lui né i suoi collaboratori, vivendo nella comunità, hanno «mangiato gratuitamente il pane di alcuno», sostenendosi invece con il lavoro delle proprie mani. Il pane, come spesso nella Bibbia, sta qui in generale per il cibo, per tutti gli alimenti che sostengono la nostra vita. Ma proprio al pane è dedicata in modo particolare la Giornata del Ringraziamento di quest’anno, che porta il titolo Dalla terra e dal lavoro: pane per la vita.
Nel Messaggio che i Vescovi italiani hanno scritto per questa giornata si ricorda come appunto il pane riassume in sé tanti aspetti del lavoro e dell’impegno umano: «C’è un forte legame tra il pane e il lavoro, tanto che alcune espressioni come “guadagnare il pane” o “portare a casa il pane” indicano l’attività lavorativa umana», anche nella sua grande varietà – una varietà che si esprime nella vita dei campi attraverso il variare dei giorni e delle stagioni, la diversità delle culture, la stessa grande varietà dei tipi di pane che troviamo anche solo nella nostra Italia… Rendendo grazie a Dio per i frutti della terra e del lavoro dell’uomo, vogliamo oggi ribadire il nostro impegno a non disertare, a non fuggire, a prendere sul serio quel compito che ci è affidato, di custodire e far crescere per noi e per tutti i frutti buoni della creazione e del nostro impegno.
Per noi e per tutti: il pane è anche un segno forte della condivisione, della «compagnia» (parola che indica appunto la condivisione del «pane») vicendevole. Oggi tutta la Chiesa celebra anche la Giornata Mondiale dei poveri, istituita tre anni fa da papa Francesco. Il legame, semplicissimo, evidente, tra la Giornata del Ringraziamento e quella dei poveri, ce lo suggeriscono le parole di Isaia, quando Dio condanna il digiuno ipocrita, falso, che maschera ingiustizie e soprusi, e chiede, invece: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?» (Is 58, 6-7).
Solo a partire da questa condivisione «la speranza dei poveri non sarà mai delusa», come dice il tema di questa terza Giornata mondiale dei poveri. Questo, del resto, è anche il senso di ciò che stiamo celebrando.
Nell’Eucaristia il pane, «frutto della terra e del lavoro dell’uomo», diventa il sacramento, la presenza reale di Gesù nel dono della sua vita per la salvezza del mondo. Il pane diventa il Corpo dato per noi, il vino diventa il Sangue versato per noi. Ma non possiamo condividere il Pane del cielo, se poi non impariamo a condividere il pane della terra; non possiamo renderci partecipi dell’amore di Colui che ha dato la vita per noi, se non impariamo anche noi a donare e a donarci.

Insegnaci, Signore, a riconoscere e a ricevere nel Pane dell’Eucaristia il tuo dono di amore; e aiutaci a condividere il pane, frutto della terra e del lavoro umano, vivendo responsabilmente il nostro impegno quotidiano, e facendoci strumento della tua predilezione verso i piccoli e i poveri del mondo. Amen.