Messa in ricordo del Servo di Dio Alfredo Cremonesi – Omelia

Parrocchia di Ripalta Guerina – 16 maggio 2019

In questa nostra celebrazione dedicata al ricordo riconoscente di p. Alfredo Cremonesi, missionario e martire, nel giorno della sua nascita, e mentre la nostra Chiesa di Crema si prepara a celebrare la sua beatificazione nel corso del prossimo ottobre missionario, le letture ci vengono incontro aiutandoci a riflettere sul senso della missione e di una vita cristiana e di Chiesa improntata alla missione. Ci aiutano, in una parola, a capire meglio anche che cosa intende papa Francesco quando insiste nel chiamare tutti i cristiani «discepoli missionari»: perché, se la vocazione missionaria in senso specifico, come è stata quella di p. Alfredo, è solo per alcuni, sentirsi parte della missione della Chiesa è invece qualcosa che riguarda tutti i cristiani, tutti i battezzati.

Riprendiamo anzitutto la parola di Gesù, che ci porta alla radice della missione: «In verità, in verità io vi dico: chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv 13, 20). Abbiamo sentito queste parole alla fine del vangelo: e quando Gesù introduce qualche affermazione dicendo Amen, amen (in italiano tradotto con «In verità, in verità…»), vuol dire che sta dando un insegnamento particolarmente importante.Proviamo a capirlo meglio.
Gesù ha appena annunciato il tradimento di Giuda, con tutto ciò che porterà con sé, e cioè l’arresto, la passione e la morte di Gesù. Come il Signore stesso dirà più tardi, nei suoi discorsi prima della passione, sta per arrivare il momento nel quale egli non sarà più presente in modo visibile in mezzo ai suoi discepoli. «Ancora per poco sono con voi», dirà ai discepoli; «voi mi cercherete ma… dove vado io, voi non potete venire» (13, 33).
Gesù, dunque, non sarà più semplicemente presente nel mondo? No, anzi: Gesù mette in guardia i discepoli, e dice loro: «Ve lo dico fin d’ora, prima che accada, perché, quando sarà avvenuto, crediate che Io sono».
Queste ultime parole, «crediate che Io sono», vogliono dire che Gesù appartiene alla vita e alla realtà di Dio, e continuerà ad appartenergli anche nella passione e nella morte – e proprio per questo la passione e la morte non saranno l’ultima parola su di Gesù, perché l’ultima parola su di lui la dice Dio, il Padre, risuscitandolo da morte e facendolo entrare nella sua gloria: è la fede pasquale, che celebriamo particolarmente in questo tempo di Pasqua.
Gesù, dunque, non svanisce nel nulla con la Pasqua, anzi: vive ormai definitivamente nella vita di Dio. Ma in che modo egli continua a essere presente nel mondo? Grazie ai suoi discepoli. C’è una specie di catena missionaria: Dio, il Padre, ha mandato nel mondo il suo Figlio, Gesù, per manifestare e far conoscere il suo amore; e Gesù manda i suoi discepoli – tutti i discepoli, tutti coloro che credono in lui – perché, quando egli non sarà più fisicamente presente nel mondo, siano loro a testimoniare l’amore di Dio che si è rivelato in Gesù Cristo.
Di fatto, proprio l’amore è la prima e fondamentale testimonianza: tant’è vero che Gesù, dopo aver detto ai discepoli «Dove vado io, voi non potete venire», continua dicendo loro: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (13, 34 s.). L’amore dei cristiani è il compito missionario principale, che il Signore ci ha lasciato: vivendo questo amore, compiamo la missione che Gesù ci affida, così come lui, amandoci fino a dare la sua vita per noi, ha compiuto la missione ricevuta dal Padre di rivelare il suo amore.

Questa missione principale di tutti i cristiani – vivere e testimoniare l’amore di Dio che ci è stato rivelato da Gesù – prende poi tante forme e tante vocazioni.
La prima lettura della Messa di due giorni fa raccontava il modo in cui la comunità cristiana di Antiochia «inventa», per così dire, la prima attività missionaria a largo raggio. In realtà non la inventa, perché è lo Spirito Santo a dire alla comunità di «mettere da parte» Barnaba e Paolo, per partire per la missione. E Paolo e Barnaba, con qualcun altro, in particolare con un discepolo di nome Giovanni Marco, si sono imbarcati, e sono partiti: e dopo di loro tanti altri, uomini e donne, conosciuti e conosciuti, hanno preso il largo per andare ad annunciare il vangelo – come fece il nostro padre Alfredo, in quell’autunno del 1925, per andare verso la Birmania.
La prima lettura ci ha raccontato un momento di quel primo viaggio missionario di Paolo e Barnaba. Vorrei attirare l’attenzione solo sul primo versetto, che ci mette davanti a un «incidente di percorso»: «Salpàti da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge, in Panfìlia. Ma Giovanni si separò da loro e ritornò a Gerusalemme» (At 13, 13).
Un piccolo incidente: uno dei tre missionari, Giovanni Marco, per motivi che non conosciamo bene, abbandona l’impresa e se ne va. Piccolo incidente che più avanti, però, sarà motivo di un litigio furioso tra Paolo e Barnaba (cf. At 15, 37-40): in occasione del viaggio missionario successivo, Barnaba vorrebbe offrire un’altra opportunità a questo Giovanni Marco; Paolo, invece, non ne vorrà sapere: e i due litigheranno fino al punto di separarsi, e non lavorare più insieme per la missione. (Poi, se vogliamo finire la storia, dobbiamo aggiungere che, a quanto sembra, ancora più tardi ci sarà una riconciliazione tra Paolo e Giovanni Marco: cf. 2Tm 4, 11).
Perché è interessante, questa storia? Perché non dobbiamo pensare che la missione sia sempre una cosa facile, in cui tutto funziona bene. Basterebbe, del resto, rileggere le lettere di p. Alfredo, per rendersene conto.
La missione porta con sé mille difficoltà, problemi di ogni genere, anche incomprensioni e litigi: siamo tutt’altro che perfetti, nel vivere l’amore reciproco e nel farlo diventare il cuore della nostra vita di Chiesa e della missione.
Ma tutto il senso del racconto degli Atti degli apostoli sta nel dire: nonostante tutto questo, la missione va avanti, perché non è opera degli uomini, con la loro generosità e anche i loro limiti, ma è opera dello Spirito. Come non ricordare lo sfogo di p. Alfredo quando, poco prima di tornare al suo villaggio, dove poi vivrà la grazia del martirio, scrive al suo vescovo: “Almeno se l’anima mia sarà risoluta com’è adesso, non scapperò più, capiti quel che capiti. Al massimo mi potranno ammazzare, il che non sarà di gran danno, giacché, al posto di un missionario ammazzato, lasceranno venire un missionario nuovo, pieno di salute, di brio e di entusiasmo…”.

Sì, è proprio il Signore che porta avanti la missione di annunciare e testimoniare l’amore di Dio. Questo, però, non è un motivo per dire: bene, faccia Lui!, ma per metterci a disposizione del suo Spirito: e lo Spirito, in ogni parte della terra, saprà fare di noi, nonostante i nostri limiti, i testimoni del Vangelo. P. Alfredo, dal cielo, interceda perché anche la nostra Chiesa custodisca sempre questo spirito missionario.