Messa Crismale 2019 – Omelia

Cattedrale di Crema, 18 aprile 2019

Saluto iniziale

Anche quest’anno il nostro presbiterio diocesano ha la grazia di riunirsi insieme per ritrovare nella Parola e nei segni sacramentali il fondamento della propria identità e della propria missione. Ne ringraziamo Dio: e grazie a tutti voi, cari confratelli, per essere qui, partecipi dei doni di Dio, uniti nel desiderio di essere collaboratori della gioia (cf. 2Cor 1, 24) di tutto il popolo santo di Dio.
Sentiamo uniti a noi i confratelli che per l’età o la malattia non possono essere presenti, in particolare il nostro carissimo don Bernardo, decano del presbiterio, che celebra quest’anno gli ottant’anni di ordinazione: Dio lo benedica e ce lo conservi ancora a lungo! Porto a tutti anche i saluti di don Felice Agnelli, che ho incontrato lunedì nella casa del clero di Sant’Angelo Lodigiano; e di don Mauro Sgaria, che ho incontrato ieri; un ricordo particolare anche per don Benedetto Tommaseo, al quale auguriamo un pronto ristabilimento dall’intervento subito nei giorni scorsi.
Abbiamo già ringraziato Dio, il 19 marzo scorso, per i presbiteri che festeggiano un particolare anniversario di ordinazione, e che vorrei ancora ricordare: il decimo anniversario di don Paolo Rocca, il cinquantesimo di don Franco Bianchi, don Giacomo Carniti, don Benedetto Tommaseo, don Lorenzo Vailati e don Giorgio Zucchelli e, come ho già detto, gli ottant’anni di don Bernardo.
Dalla Pasqua dello scorso anno ci ha lasciato, troppo rapidamente, il nostro don Elio Ferri: a Dio, che l’ha chiamato a Sé prima del tempo, almeno secondo le nostre vedute umane, chiediamo la grazia di esaudire uno dei desideri più vivi e profondi del cuore di don Elio, ossia la fioritura di nuove e sante vocazioni di speciale consacrazione, di cui sentiamo particolarmente il bisogno.
Saluto con molto affetto i nostri seminaristi, Alessandro, Cristofer, Enrico e Piergiorgio; con una preghiera speciale accompagniamo il diacono Piergiorgio nelle ultime settimane di preparazione all’ordinazione presbiterale, che avremo la grazia di celebrare il prossimo 8 giugno, vigilia di Pentecoste.
Sentiamo vicino a noi anche don Federico Bragonzi, dalla sua missione nella diocesi “sorella” di San José de Mayo, in Uruguay. Ricordando poi tutti i missionari e le missionarie originari della nostra Chiesa, il nostro pensiero corre, ancora una volta, al nostro carissimo padre Gigi Maccalli, a sette mesi dal suo rapimento. Non ci stanchiamo di pregare per lui, per la sua liberazione; alla sua tribolazione sentiamo unite le speranze, i desideri, le gioie e le fatiche di tutti i nostri missionari. Si sentano sorretti, ora, anche dall’intercessione del Servo di Dio, p. Alfredo Cremonesi, missionario e martire, che dal prossimo ottobre – mese missionario straordinario per volontà di papa Francesco – potremo ufficialmente venerare come ‘beato’.
Saluto e benedico con riconoscenza i consacrati e le consacrate, segno prezioso dell’amore di Dio per la nostra Chiesa. Invito tutti a pregare anche per quanti continuano il cammino per il diaconato permanente: Antonino e Alessandro, che saranno istituiti accoliti nelle prossime settimane, nelle loro parrocchie; e Edoardo Capoferri e Claudio Dagheti, che il prossimo 11 maggio saranno ammessi ufficialmente tra i candidati al diaconato permanente.
Un benvenuto speciale, infine, ai gruppi dei cresimandi delle nostre parrocchie, per i quali oggi benediciamo il santo Crisma, con il quale saranno segnati nel giorno della loro Cresima. E a voi tutti, sorelle e fratelli che condividete con il vescovo e i presbiteri la grazia di questa giornata, come pure a quanti si uniscono a noi attraverso la radio o la diretta in streaming, il nostro grazie più sentito e profondo.

 

Omelia

Nel settembre scorso, all’inizio dell’anno scolastico, avevo pensato di rivolgere una parola di incoraggiamento al mondo della scuola, allargandola poi a tutta la nostra realtà cremasca e a tutta la nostra Chiesa. In quell’occasione mi ero permesso di augurare ‘coraggio’ in particolare ai preti, ai consacrati e alle consacrate perché, dicevo, sono – siamo! – tra quelli che più rischiano di scoraggiarsi e di stancarsi, in questo nostro mondo e in questo nostro tempo così complicato e confuso.
Ora, questa nostra celebrazione, insieme con quella che vivremo nel pomeriggio o stasera nelle nostre parrocchie, ci fa ritrovare con Gesù nel cenacolo, prima di seguirlo nel cammino della sua Passione. E ci fa raccogliere l’ultima parola che Gesù consegna ai discepoli: parola che è proprio un invito al coraggio: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16, 33).
Celebrando questa santa Messa del Crisma, vorrei riprendere questa parola del Signore Gesù, per chiedere a Dio per tutti la grazia del coraggio, e chiederla specialmente per noi, chiamati da Dio al ministero nella Chiesa e da lui consacrati con l’unzione dello stesso Spirito Santo che ha consacrato Gesù in vista della sua missione di annuncio del Vangelo ai poveri.

Evidentemente non è possibile fermarsi in questo momento sulle ragioni che possono indurci allo scoraggiamento: ce ne sono tante! Credo che una delle più forti, in questo momento, per noi, sia l’esperienza della «debolezza» del nostro ministero. Debolezza perché è molto meno considerato di un tempo; debolezza perché ci sembra meno chiaro, nei suoi tratti, che in passato; debolezza perché facciamo fatica ad affrontare i cambiamenti; debolezza anche a motivo dei nostri limiti, debolezza per i comportamenti di nostri confratelli che in tanti luoghi sono stati e sono causa di vergogna per tutta la Chiesa e in particolare per i suoi ministri…
Quando penso a questa debolezza, e a come rispondervi con scelte di coraggio evangelico, ricordo spesso l’apostolo Paolo, che ha fatto esperienza di questa debolezza. Penso, ad esempio, a ciò che si legge nella sua seconda lettera a Timoteo: l’apostolo si sente ormai vicino alla fine; si presenta come prigioniero; è solo, abbandonato da tutti; ci sono persone che gli hanno procurato del male; ha già affrontato un processo, senza nessuno che l’assistesse; si prospetta per le comunità un futuro non lontano di grande confusione, di smarrimento nella fede e nei costumi…
C’è tutto questo, eppure, da parte di Paolo, non c’è nessun ripiegamento, nessun comportamento rinunciatario. C’è, invece, la coscienza di aver sperimentato la vicinanza del Signore – perché dice, «il Signore mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno» (2Tm 4, 17 s.); c’è la consapevolezza che «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza [potremmo ben tradurre proprio: di coraggio!], di carità e di prudenza» (1, 7); c’è l’affidamento pieno a Gesù Cristo, risorto dai morti, perché con fede possiamo dire che «se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (cf. 2, 8-13).
C’è la certezza che se l’apostolo è in catene, «la parola di Dio però non è incatenata!» (2, 9); e dunque c’è l’invito a Timoteo a ravvivare il dono di Dio, che lo stesso Paolo gli ha conferito con l’imposizione delle mani; a non vergognarsi del vangelo; a non scoraggiarsi, facendo conto sulla potenza e la grazia di Dio in Cristo (cf. 1, 8; 2, 1).
C’è l’esortazione a lottare e lavorare senza stancarsi (cf. 2, 4-6), custodendo il dono di Dio (cf. 1, 14) e la memoria di Gesù morto e risorto (cf. 2, 8 ss.); c’è anche l’invito a evitare chiacchiere e discussioni che provocano inutili litigi (cf. 2, 16.23); a rimanere saldo sul fondamento gettato da Dio (cf. 2, 19; 3, 14); a trovare nelle Scritture ispirate da Dio tutto ciò di cui c’è bisogno «per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia» (3, 16 s.); c’è l’invito pressante ad annunciare la Parola, a insistere «al momento opportuno e non opportuno», ammonendo, rimproverando, esortando «con ogni magnanimità e insegnamento» (4, 2), vigilando attentamente, sopportando le sofferenze, compiendo l’opera di annunciatore del Vangelo (cf. 4, 5)…
Tutto questo, Timoteo dovrà farlo senza tracotanza, senza rancore, ricordando che un servo del Signore, un ministro di Dio, «non deve essere litigioso, ma mite con tutti, capace di insegnare, paziente, dolce nel rimproverare quelli che gli si mettono contro» (cf. 2, 24).
È bello vedere l’apostolo vecchio, logorato da molte prove, dalla solitudine, dalle catene, esortare così il suo discepolo a uno «stile di coraggio», radicato in definitiva nel fatto che Dio «ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia» rivelata in Cristo, che «ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo (cf. 1, 9 s.).

Romano Guardini, in una sua meditazione sul coraggio, dice che Dio ha avuto del coraggio a creare noi uomini, a volerci come sue creature costituite nella libertà e responsabili della creazione; e ancora di più c’è voluto coraggio, da parte di Dio, nel prendere su di sé la responsabilità per la nostra colpa, «facendosi uomo e accettando un destino nella nostra storia così torbida e confusa» (cf. R. Guardini, Virtù. Temi e prospettive della vita morale, Morcelliana 1997, pp. 119 s.). Potremmo aggiungere che c’è voluto del coraggio, da parte di Dio, nel chiamarci a essere suoi ministri e mettere nelle nostre mani la ricchezza del suo dono di amore anche a favore dei nostri fratelli!
In questo giorno, in cui rinnoviamo davanti al Signore e davanti ai fratelli le promesse della nostra ordinazione, credo che da parte nostra dovremmo chiedere a Dio il dono del coraggio; un coraggio che ci aiuti a non diventare come il terzo servitore della parabola dei talenti, che per paura sotterra la ricchezza ricevuta dal padrone, anziché correre il rischio di trafficare il talento ricevuto (cf. Mt 25, 14-30).
E penso che il Signore rinnovi per noi oggi tre doni, che possono aiutarci a vivere con franchezza lieta e coraggiosa la missione che ci è stata affidata. Li dico rapidamente, per arrivare alla conclusione.

Anzitutto, ciò che stiamo vivendo e celebrando qui: la Parola e i sacramenti; quella Parola che, come ricorda Paolo a Timoteo, «non è incatenata», quella Parola alla quale siamo affidati (cf. At 20, 32) e che ci è affidata, e che opera efficacemente per la salvezza nostra e dei fratelli; quella parola che proclama il senso dei grandi gesti di salvezza posti nelle nostre mani, nei segni dell’acqua, dell’olio, del pane e del calice… Se non li riduciamo a un rito da ripetere stancamente, questi grandi segni diventano sorgente di un coraggio che non nasce da noi, perché ci inseriscono nel disegno di salvezza di Dio per l’uomo e per il mondo e lo rendono presente nella vita nostra e dei nostri fratelli.

Fonte di coraggio dev’essere per noi la nostra fraternità presbiterale e con tutto il popolo di Dio. Quando Paolo, al termine di un viaggio avventuroso, si avvia verso Roma, vede a un certo punto venirgli incontro i ‘fratelli’ della comunità cristiana di Roma: e riceve, da questo incontro, un grande incoraggiamento (cf. At 28, 15).
Chiediamo anche noi al Signore la grazia di essere, gli uni per gli altri, motivo e strumento di sostegno e di coraggio: per non sentirci soli, e per riconoscere che Dio ci è vicino proprio grazie alla prossimità reciproca, che siamo chiamati a realizzare.

Finalmente, vorrei ricordare quella fonte di coraggio che è l’amore per il nostro popolo, in particolare per i suoi membri più piccoli e bisognosi. Permettetemi di dirlo con le parole che il Manzoni mette in bocca al card. Borromeo nel suo dialogo con un prete davvero poco coraggioso, qual era il povero don Abbondio. È proprio lui a dire, a un certo punto del difficile dialogo col cardinale: «Il coraggio, uno non se lo può dare».
Lascio a voi di rileggere, se volete, tutta la risposta del cardinale, il suo richiamo al fatto che neppure i martiri erano coraggiosi per natura, eppure hanno potuto chiedere e ottenere da Dio il coraggio di cui avevano bisogno. Ma riprendo almeno queste righe:

«Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido…» (A. Manzoni, I promessi sposi, c. 25).

Sì, c’è un coraggio che nasce dall’amore, dal voler bene alle nostre comunità, alla nostra gente, soprattutto ai piccoli, ai poveri, ai più deboli e indifesi. Non abbiamo bisogno di potere, di ricchezze o di mezzi umani, per vivere con umile coraggio il nostro ministero. Abbiamo bisogno di questo amore intrepido, che il Signore non mancherà di darci in abbondanza, se lo chiederemo con fiducia per ciascuno di noi e per tutta la nostra Chiesa.