Messa crismale – 14 aprile 2022

Il vescovo Daniele ha presieduto la santa Messa del Crisma, con i preti e i fedeli della diocesi, la mattina del giovedì santo, 14 aprile 2022; nel corso della celebrazione, il vescovo ha benedetto gli Oli santi, l’olio dei catecumeni, l’olio degli infermi, e il santo Crisma – che sarà usato in particolare nelle celebrazioni delle Cresime, a partire dalle settimane successive alla Pasqua. Riportiamo di seguito il saluto iniziale della celebrazione e l’omelia del vescovo.

Saluto iniziale

Do il benvenuto a tutti voi qui presenti, a quanti seguono la celebrazione attraverso i mezzi di comunicazione, e anche a coloro che in ogni modo sono in comunione con noi in quest’ora di grazia.
Benedico e ringrazio Dio per il dono della nostra Chiesa cremasca, per i suoi battezzati e battezzate nelle varie condizioni ed età della vita; per le consacrate e i consacrati; per coloro che svolgono diversi ministeri; per i diaconi; e, naturalmente, per tutto il presbiterio diocesano, che vive in questa celebrazione un suo momento particolarmente significativo.
Tra i presbiteri, il primo pensiero va a quanti non possono essere presenti specialmente per ragioni di età e salute: permettetemi di nominare solo don Ennio Raimondi, ospite della Residenza ‘Camillo Lucchi’, e don Giovanni Terzi, accolto nella casa presbiterale di S. Angelo Lodigiano; ma un ricordo affettuoso vada a tutti gli altri che non possono partecipare fisicamente a questa celebrazione.
Ringraziamo Dio per e con i confratelli che celebrano qualche anniversario speciale di ordinazione: 50 anni, per don Luciano Taino; 40 anni, per don Natale Grassi Scalvini e don Giovanni Battista Pagliari (e loro mi unisco anch’io, ordinato prete 40 anni fa…); 25 anni, per don Lorenzo Roncali; 10 anni, per don Matteo Ferri. Non ha ancora compiuto un anno di ministero don Cristofer Vailati, che per la prima volta partecipa da prete alla Messa Crismale: gli rinnoviamo il nostro più cordiale e fraterno benvenuto!
Saluto e ringrazio, e affido alla preghiera di tutti, i nostri seminaristi: Enrico, che si avvia alla prossima ordinazione presbiterale, e Andrea. Ricordiamo con riconoscenza la comunità seminaristica di Lodi con i suoi formatori, e affidiamo a Dio anche le scelte che come vescovi della nostre diocesi vicine siamo chiamati a fare per il Seminario. E preghiamo per i giovani e le ragazze che stanno compiendo un cammino di discernimento vocazionale, non stancandoci di invocare da Dio il dono di numerose e sante vocazioni.
Sentiamo uniti a noi nella preghiera don Federico Bragonzi e don Paolo Rocca, in servizio nella diocesi di San José de Mayo, in Uruguay; con loro ricordiamo tutti i missionari e le missionarie originari della nostra Chiesa, alcuni dei quali anche hanno mandato il loro saluto in vista di questa celebrazione.
Con riconoscenza vogliamo ricordare nel Signore i sei confratelli che Dio ha chiamato alla vita eterna in questo ultimo anno: don Paolo Ponzini, don Primo Pavesi, don Mario Piantelli, don Mauro Sgaria, don Vito Barbaglio e don Felice Agnelli. Con loro ricordiamo anche S. E. Mons. Franco Croci, da questa nostra Chiesa chiamato al servizio della S. Sede, e morto nella scorsa estate. Dio restituisca loro in sovrabbondanza di vita il bene fatto alla nostra Chiesa mediante il loro ministero.
Dio faccia risplendere in tutti noi, secondo le nostre diverse chiamate, la santa Unzione con la quale ha consacrato il Figlio a portare ai poveri la buona notizia della salvezza, perché il «buon profumo di Cristo» (cf. 2Cor 2,14-15) possa ancora diffondersi in tutta la terra.

Omelia

Provo a riflettere con voi intorno alle tre principali prospettive della “unzione nello Spirito”, di cui ci parlano i testi biblici e liturgici, e anche i santi segni che compiamo in questa Messa del Crisma. Vorrei ricordare in modo particolare a me e a voi che questa unzione è sempre in favore di altri; un dono di Dio, che immediatamente costituisce chi lo riceve nella condizione del vivere e agire “per” altri.

1. Lo vediamo anzitutto in Gesù. Lo Spirito che scende su di lui, lo consacra con la sua unzione, e lo manda a evangelizzare i poveri, a proclamare la libertà ai prigionieri, la vista ai ciechi, la liberazione agli oppressi…
L’unzione dello Spirito è un’esperienza di apertura; abilita Gesù a esistere non per sé, nella sua santità gelosamente difesa, ma nell’incontro e nella relazione con le persone. Gesù è il primo inviato – c’è proprio il verbo della missione, quello che poi il Signore userà per i suoi ‘apostoli’; ma è lui il primo inviato, l’apostolo del Padre nello Spirito – ma non in un luogo specifico, in un territorio particolare. È inviato alle persone, e specialmente a quelle per certi versi meno raggiungibili: poveri, prigionieri, ciechi, oppressi, quali che siano le cause e le forme precise di queste situazioni di povertà, oppressione, prigionia…
Tutto lo sviluppo del racconto evangelico mostrerà poi che Gesù è inviato verso di loro per offrire loro non “qualcosa”, per quanto bello e significativo sia ma, in definitiva, sé stesso: perché è lui, in persona, il Vangelo; è lui la liberazione; è lui la luce che apre gli occhi ai cieli; è in lui che l’«anno di grazia del Signore» si fa presente.
Il suo sacerdozio nello Spirito, come illustrerà abbondantemente la Lettera agli Ebrei, non consiste nell’offerta di «capri e vitelli», ma nel dono di sé stesso – quel dono che noi contempliamo e accogliamo specialmente nei giorni santi che ci stanno davanti.

2. La seconda unzione è quella che riguarda tutto il popolo dei battezzati. È a questo popolo che si riferisce la parola dell’Apocalisse, ascoltata nella seconda lettura, dove si glorifica «Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, [e] che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre» (Ap 1,5-6).
Come diremo nel Prefazio della Preghiera eucaristica, Dio ha voluto che che l’«unico sacerdozio» di Gesù Cristo «fosse perpetuato nella Chiesa»; per questo, Cristo «comunica il sacerdozio regale a tutto il popolo dei redenti».
È chiaro che questo sacerdozio non può che avere come modello quello di Cristo stesso. Vale per la Chiesa, corpo di Cristo, ciò che vale per il suo Capo: non esistere per sé, ma per altri; non accogliere lo Spirito e la sua unzione come una proprietà da custodire gelosamente, ma per andare verso tutti (e, ancora una volta, specialmente verso i “poveri”), per offrire loro la pienezza della vita in Cristo.
E vale per tutta la Chiesa – compresa, quindi, la nostra Chiesa cremasca – ciò che vale per il Signore: e cioè che il dono decisivo è quello di noi stessi, nella misura in cui ci lasciamo conformare a Gesù stesso.
C’è qui, credo, una chiave di lettura importante anche del momento faticoso che la Chiesa sta vivendo, almeno in questa parte del mondo e in questo tempo storico. Si tratta di un momento e di un’esperienza di spoliazione: la Chiesa conta meno di un tempo, il suo prestigio si è largamente ridotto, le sue forze si sono assottigliate, le sue certezze poste in discussione, le sue manchevolezze messe sempre più in mostra…
È un’esperienza che può essere anche dolorosa (e certamente non dice da sola tutto ciò che viviamo in questo tempo); ma la grazia che possiamo chiedere al Signore, in questo contesto, è di far sì che in tutto si manifesti sempre meglio che non le risorse umane, ma solo il dono di Dio in Cristo, affidato alle nostre povere mani, è salvezza per l’uomo.
E questo dono di Dio risplende in una Chiesa che non cerca di proteggere se stessa, ma vive per l’uomo e per il mondo – il che non vuol dire “secondo l’uomo” o “secondo il mondo” – con l’unico intento di attestare, anche e soprattuto nella povertà e nella spoliazione, l’amore fedele di Dio.

3. La terza unzione è quella che ci riguarda come presbiteri: scelti dal Signore (riprendo ancora alcune espressioni del Prefazio) nel suo amore, per essere partecipi del suo mistero di salvezza, per sostenere il popolo santo con la Parola e i sacramenti, per donare la vita per il Signore e per i fratelli.
Il “per” risuona molte volte, in queste righe del Prefazio: perché, ancora una volta, l’unzione dello Spirito ci “sequestra”, e ci manda. Una delle espressioni più forti di questa “presa” del Signore sulla nostra vita, in favore di tutto il popolo di Dio e perché questo popolo, la sua Chiesa, viva a sua volta la vocazione “per” il mondo, è quella che si legge nella seconda lettera di Paolo ai Corinzi: «L’amore del Cristo… ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro» (2Cor 5,14-15).
A questo testo sono particolarmente affezionato, anche perché si leggeva tra le letture bibliche della mia “prima Messa”, quarant’anni fa. Ma credo che traduca nel modo migliore il senso del nostro ministero visto come un “esistere-per”.
È vero che Paolo qui sta dicendo qualcosa che riguarda “tutti”: tutti quelli che, in un modo o nell’altro, sono stati raggiunti dalla consapevolezza radicale di ciò che Cristo ha fatto per noi e dalla “urgenza” del suo amore (Caritas Christi urget nos…): «… perché quelli che vivono non vivano più per se stessi…».
Al tempo stesso, però (e lo si capisce dal contesto), Paolo pensa in un modo particolare al suo ministero apostolico (cf. vv. 11-13), le cui modalità i Corinzi non sempre capiscono, e a volte anche espressamente contestano, o giudicano inadeguato.
Paolo è consapevole dei suoi limiti: sa bene che il “tesoro” di Cristo è affidato a “vasi di creta”, tra i quali c’è anche lui (cf. 4,7); ma sa anche bene che i limiti e le fragilità possono derivare sì dal nostro peccato (e per questo senz’altro chiediamo perdono a Dio e ai fratelli); ma sono anche lo strumento paradossale, scelto da Dio, per mettere in evidenza la potenza del suo amore.
Per questo, appartengono al nostro “vivere-per”, alla forma della nostra pro-esistenza, anche il fatto di non essere, specie nel nostro mondo, persone “di successo”; il fatto di sentirci disorientati nei cambiamenti rapidi della società e della Chiesa; il fatto di faticare nel pensare in modo nuovo il ministero posto nelle nostre mani; il fatto di essere in meno, anche rispetto a un passato non lontanissimo…
Anche tutte queste cose ci ricordano che non siamo diventati preti “per noi stessi”, ma per il Signore e per i fratelli: e per questo sempre il ministero a noi affidato va “riconsegnato” a Dio che ce lo ha donato, perché sempre lo riceviamo da Lui, e a Lui lo restituiamo, in modo che non diventi mai “possesso”, ma sia forma di dedizione e servizio al popolo sacerdotale.
Per questo popolo, in questo popolo e con questo popolo sacerdotale, potremo essere preti che non si appartengono e per questo hanno, nello Spirito, la capacità di donarsi senza paure e senza riserve, lieti di vivere non più per noi stessi, ma per colui che è morto e risorto per noi, e che nella sua benevolenza ci ha voluto associare al suo ministero di salvezza.