È fragile, la nostra vita: e questa fragilità è ricordata dal segno della cenere, che tra poco riceveremo sul capo.
È vero che noi cerchiamo di contrastarla in tanti modi, questa fragilità. E ci riusciamo, anche, per lo meno fino a un certo punto. Pensiamo a come si è allungata mediamente la nostra vita, almeno nel nostro mondo occidentale; pensiamo a tutto quel che facciamo per mantenerci o almeno mostrarci «giovani» – tanto che sembra offensivo qualificare come «vecchio» chi, come me, ha già passato da un po’ i sessant’anni… Pensiamo alle mille risorse mediche, scientifiche, tecnologiche, cosmetiche e di ogni altro genere, che ogni giorno ci vengono proposte per respingere il più in là possibile l’esperienza della fragilità…
Perché noi, in generale, non amiamo la fragilità: solo che, nel tentativo di contrastarla, imbocchiamo spesso vie molto scivolose: che possono condurci, nella migliore delle ipotesi, verso la ricerca dell’apparenza, verso la superficialità, l’ostentazione di noi stessi e dei nostri beni; ma, quando va peggio, ci conducono verso l’affermazione egoistica di noi stessi, verso il desiderio di possedere, di dominare, verso percorsi di rivalità e conflitti, i cui esiti estremi – non dobbiamo nascondercelo – sono anche quelli che vediamo purtroppo in questi giorni in Ucraina.
Noi cerchiamo di sfuggire alla fragilità: Dio, invece, la abbraccia, la fa sua; ne fa, anzi, il luogo prediletto per manifestarsi e venire a noi. Noi crediamo nel «Verbo fatto carne», secondo la parola del Vangelo di Giovanni (cf. 1,14). Crediamo, cioè, che la Parola potente e creatrice di Dio, la Parola «che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono» (cf. Rm 4,17), ha fatto sua la nostra «carne»: termine che indica proprio la nostra condizione di creature fragili, fatte di «polvere».
Dio non cerca di occultare la fragilità; non cerca di farla passare per quel che non è, di abbellirla con ritocchi esterni, anzi: la assume fino in fondo, fino «alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8), fino all’estremo più inconcepibile della fragilità.
La contempleremo, questa fragilità inchiodata alla croce, e nella quale noi riconosciamo il dono di salvezza definitivo di Dio, il compimento del suo amore per l’uomo e per il mondo, al termine della Quaresima, celebrando la Pasqua del Signore.
Ma il cammino che oggi incominciamo è, in definitiva, un invito a scegliere: scegliere fra il nostro atteggiamento spontaneo, che fugge la fragilità e prova a nasconderla, aggrappandosi alle risorse di questo mondo, e il modo in cui Dio abbraccia questa fragilità, per farla diventare luogo in cui si rivela la potenza dell’amore.
«Ricordati che sei polvere, e in polvere tornerai»: così dice una delle formule che accompagnano l’imposizione delle ceneri. Ricordati di questo: ma non per avvilirti, non per abbatterti.
Ricordatene, anzitutto per tenere a mente che Dio ti è venuto a cercare proprio in questa fragilità, e che l’ha fatta sua, per mostrarti che essa non è da fuggire o da disprezzare. È venuto a salvarla, questa tua fragilità; è venuto per farti vedere che Dio non la ritiene indegna di Sé. Ed è venuto a indicarti la via per la quale questa fragilità si può trasformare in pienezza di vita.
Come dicevo, il culmine di questa trasformazione lo contempleremo celebrando la Pasqua. Intanto, però, la Quaresima è un invito a metterci sulla via di questa trasformazione, di questa trasfigurazione. Ci viene proposto, anzitutto, di acconsentire a ciò che Dio fa per noi e in noi, perché si compia questa trasformazione: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20), questo è il primo invito che ci è proposto di accogliere. Prima ancora che «fare» noi qualcosa, si tratta, infatti, di lasciar fare a Dio – e anche questo è riconoscimento positivo della nostra fragilità: da soli, con le nostre forze, con la nostra buona volontà, andremmo poco lontano…
Lascia fare a Dio: non ti chiede di sforzarti per arrampicarti fino in cielo, perché Lui ha fatto tutto il cammino per scendere fino a noi, fino al punto che «colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (v. 21). Difficile dire in modo più forte fino a che punto Dio ha abbracciato la nostra fragilità!
Allora, si tratta anzitutto di lasciarci raggiungere dall’abbraccio di Dio, dal suo desiderio di farsi solidale, nel suo Figlio Gesù, con la nostra fragilità creaturale e segnata dal peccato. Lasciamoci raggiungere da Dio, lasciamoci riconciliare con Lui.
Ciò che, da parte nostra, possiamo «fare», è soprattutto sgombrare tutte le fortificazioni che ci costruiamo attorno, perché possiamo ancor meglio accogliere il dono di Dio. La preghiera, l’elemosina, il digiuno, di cui parla Gesù nel discorso della montagna, sono uno strumento eccellente per questo: se non altro, perché contribuiscono in modi diversi a smontare il nostro «io» ipertrofico, quell’«io» che facciamo crescere a dismisura per contrastare la nostra fragilità, per fare posto ad altro – o, meglio, per fare posto all’Altro e alla sovrabbondanza del suo amore, e all’altro che è il fratello, al quale imparare sempre più a tendere la mano, diventando fragili con chi è fragile, per crescere insieme in generosità e condivisione.
Accogliamo dunque sulla nostra testa la cenere: riconosciamo la nostra fragilità e pochezza, riconosciamola però come luogo dove si fa carne il Figlio di Dio e dove abita la potenza del suo Spirito, che perdona, salva e trasfigura la polvere che noi siamo, per farci diventare nuove creature, perché si formi in noi l’uomo nuovo, «creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità» (Ef 4,24).