Giornata della Vita consacrata – Omelia

Cattedrale di Crema, 2 febbraio 2019 – Festa della Presentazione del Signore al tempio

Nonostante l’insistenza di Luca sull’osservanza della «legge del Signore», da parte di Maria e di Giuseppe (cf. Lc 2, 22-24), non era necessario, secondo la legge stessa, portare al tempio il figlio primogenito. Era necessario il suo «riscatto», perché il primogenito «apparteneva a Dio», e dunque bisognava «riscattarlo», ma non c’era bisogno, per questo, di portarlo al tempio; mentre era necessaria la purificazione della madre che aveva da poco partorito, e questa comportava, sì, l’offerta al tempio di un sacrificio.
Possiamo dire che Maria e Giuseppe, portando al tempio Gesù, quaranta giorni dopo la sua nascita, fanno di più di quanto la legge richiedeva. E proprio questo «di più» è un’indicazione particolarmente preziosa. Quando si vive la propria vita davanti a Dio nei termini di osservanza di una legge, c’è sempre il rischio di scadere in un criterio «commerciale»: la legge mi dice di fare questo, e l’ho fatto; mi proibisce di fare quest’altro, e non l’ho fatto: così sono a posto, ho assolto i miei obblighi, sono nel giusto, e posso pensare ad altro.
La giustizia «più grande», che poi Gesù chiederà ai suoi discepoli (cf. Mt 5, 20), è una giustizia che guarda oltre la legge: non la nega, ma coglie nella legge una dimensione più profonda e radicale, e capisce che proprio lì si gioca la verità del rapporto con Dio. E dice, dunque, ad esempio: «Avete inteso che fu detto [nella Legge]: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano…» (5, 43 s.).
È in questa logica del «di più», dell’eccedenza, che vorrei guardare con voi oggi al dono della vita consacrata. Non è un di più di prestazione, o di impegno, o di cose da fare: è il «di più» gratuito, il «di più» ‘inutile’, il «di più» che nel giorno di festa ci fa ornare la tavola con dei fiori, che non cambiano la quantità o qualità dei cibi, ma danno un tocco diverso al trovarsi insieme intorno alla mensa.
E proprio questo «di più» finisce per diventare la realtà più importante. Cosa ne abbiano fatto, Maria e Giuseppe, di quei colombi o tortore che dovevano portare per il sacrificio (l’offerta dei poveri, secondo Levitico 12, 8), il vangelo non lo dice. Ci parla, invece, di Gesù: non era indispensabile, ripeto, portarlo al tempio: ma proprio lui è al centro di tutto.
Decisivo è proprio ciò che è gratuito, non necessario; ed è anche bello notare che, essendo Gesù ancora un bambino, nato da poche settimane, è sì al centro di tutto, ma non fa niente e non dice niente.
Si lascia accogliere, precisamente nella sua fragilità e persino «inutilità»: certo, gli occhi della fede di Simeone, illuminati dallo Spirito, sanno intravedere in lui il Messia promesso, e anzi colui che sarà luce per rivelare a tutti i popoli l’amore del Padre; ma, tra le sue braccia, c’è un bambino piccolissimo che, da sé, non offre alcuna garanzia umana di potenza, di vittoria o di salvezza.
E questo mi permette di sottolineare un secondo tratto caratteristico, della vocazione alla vita consacrata: quello della speranza. Il «di più» della grazia, del legarsi a Dio non anzitutto per qualche «dovere» o necessità, ma per la gioia di riconoscere la gratuità e la bellezza del suo amore, e di rispondervi senza calcolo, in puro dono, apre il cuore alla speranza: perché noi non misuriamo la promessa di Dio in base a quanto abbiamo in mano, così come non stiamo a fare calcoli meschini di dare o di avere.
Abbiamo capito che Gesù, il Signore, lo Sposo, l’Amico, si è consegnato totalmente a noi, come un bambino che passa da un abbraccio all’altro; e intuiamo che ciò a cui ci ha chiamato è un orizzonte senza misura, è una luce che sorpassa di gran lunga ciò che i nostri poveri occhi riescono a vedere; è una speranza che ha la misura senza misura del progetto di Dio. Sì, anche in quella che a volte può sembrarci la pochezza, la povertà della nostra vita, è iscritto un orizzonte grande, smisurato, che va molto al di là di ciò che riusciamo a vedere.
Certo, proprio per questo la nostra vocazione partecipa anche del «segno di contraddizione» che Simeone riconosce nel bimbo Gesù. Qualche volta – va da sé – la nostra vita è segno di contraddizione perché non è all’altezza del disegno grande dell’amore di Dio, che la fonda e la conduce al compimento.
Ma anche le suore e i frati e i consacrati e le consacrate più brave del mondo rimangono «segno di contraddizione»: proprio perché la loro (la vostra) è una vocazione fondata sulla gratuità, su ciò che sembra umanamente «inutile»; proprio perché vuol testimoniare una speranza molto più grande di ciò che si lascia vedere, e perché fa scelte come la povertà, la castità, l’obbedienza evangelica, entra inevitabilmente in collisione con il mondo, e resterà sempre «segno di contraddizione» per esso.
Per questo, anche a noi – a voi – una spada trafigge l’anima, come a Maria. Ci sarà sempre, credo, questa spada, anche se a volte, sicuramente, il Signore ci fa la grazia di non sentire dolore per essa; qualche volta, anzi, ci si può persino sentire trafitti da una gioia inesprimibile. Ma questa spada ci sarà sempre, perché non può non attraversarci il dolore di sapere che l’Amato, il Signore Gesù, non è amato; il dolore di non sentirsi capiti, in una scelta così bella, come quella della consacrazione a Lui; il dolore anche di essere in pochi, anziani, fragili… e, senza dubbio, anche il dolore che nasce dalla consapevolezza dei nostri limiti e dei nostri peccati.
Chiediamo al Signore di non avere paura di questa spada: come per Maria, è la realtà che ci associa alla passione e alla gloria del Signore, alla sua Pasqua, cioè, nella quale si compie il mistero della salvezza, e che è la chiave di volta, il significato della vita dell’uomo e del mondo.
Il gesto che abbiamo fatto, entrando in cattedrale con le candele accese, anticipa ciò che celebriamo pienamente nella Veglia pasquale, dove si rinnova per noi il passaggio da morte a vita, al quale Gesù ci conduce nel suo mistero di salvezza.
Chiediamo la grazia di vivere tutta la nostra vita secondo questa logica pasquale, senza rimpiangere nulla di ciò che ci sembra perduto, nella fiducia che Dio conduce alla gioia senza fine chi si fida di lui e si abbandona pienamente nelle sue mani, come abbiamo fatto nel giorno della nostra consacrazione. E la Vergine Madre sia per noi esempio, intercessione, sostegno e speranza.