Nella Basilica di S. Maria della Croce, il 19 maggio 2021, il vescovo Daniele ha presieduto i funerali di Maurizio Redondi, membro di quella comunità parrocchiale, Presidente della Fondazione diocesana Opera S. Pantaleone e della Associazione dei volontari Caritas Camminiamo insieme, membro del CdA della Fondazione Madeo (Caritas diocesana), per molti anni funzionario del Comune di Crema, di cui era stato anche vice-segreterario comunale. Riportiamo l’omelia del vescovo.
Gli amici e i collaboratori di Paolo, i membri della comunità di Efeso, dove l’apostolo aveva trascorso un tempo significativo del suo ministero, piangono la sua partenza, «addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave» (Atti 20,38 [I lettura del giorno]).
Anche noi siamo qui, in lacrime, per un saluto ancora più definitivo, sapendo che non vedremo più il volto di Maurizio, e per accompagnarlo a una partenza molto più radicale di quella che riguardava Paolo. Nel nostro dolore, ci consola il fatto che sappiamo anche noi, come Paolo, qual è la meta di questo viaggio; l’apostolo l’aveva annunciata poco prima, in quello stesso discorso di addio: «Ed ecco, dunque, costretto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme…» (v. 22).
Sì, ne siamo certi: Maurizio è partito per Gerusalemme, la Gerusalemme del cielo, quella vera. I suoi occhi si sono chiusi troppo presto a questa vita terrena, ai suoi cari, e anzitutto alla sua sposa Paola, alle sue figlie e alle loro famiglie, alle nipotine, alle sorelle; si sono chiusi a questa comunità cristiana di S. Maria della Croce e alla comunità diocesana che ha amato e servito in tanti modi; a questa città, che ne ha apprezzato la dedizione e uno stile improntato alla serietà del lavoro e alla ricerca instancabile del bene comune.
A tutto questo, dicevo, gli occhi di Maurizio si sono chiusi in tempi che noi giudichiamo troppo brevi. Ma la fede ci dice su che cosa essi si aprono, nel viaggio al quale ora lo accompagniamo:
«E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo».
Anche Maurizio, come tutti i nostri cari che affidiamo alla misericordia di Dio, ascolterà la «voce potente», che viene dal trono di Dio, proclamare:
«Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro
ed essi saranno suoi popoli
ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno,
perché le cose di prima sono passate».
E Maurizio sentirà Colui che siede sul trono, vittorioso della morte e del male, assicurare: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,1-5).
A questa visione e a queste parole di speranza, di una speranza più forte della morte, ci dobbiamo avvicinare con grande umiltà; e credo che Maurizio, per quel che ho potuto conoscerlo, per primo ci direbbe: non fate di me un santo! Piuttosto, pregate per me, peccatore; pregate perché, nonostante le mie fragilità e pochezze, si apra anche per me lo spazio della misericordia di Dio, e io possa essere accolto nella Gerusalemme del cielo.
Ed è appunto ciò che stiamo facendo: siamo qui a rendere grazie a Dio per un nostro fratello in umanità e fede, al quale ci legano tanti vincoli di conoscenza e riconoscenza; siamo qui a pregare per lui, perché gli siano perdonati i peccati dovuti alla fragilità umana; siamo qui a chiedere a Dio di aiutarci a capire nella fede perché questa vita è stata così rapidamente stroncata dalla malattia, mentre, per quel che possiamo capire noi, poteva essere ancora ricca di tanti frutti.
Siamo qui forse anche per capire quanto è importante non sprecarla, questa vita che ci è data; per riconoscere quanto è vera quella parola di Gesù, che non si legge nei vangeli, ma che ci riporta Paolo proprio nel discorso agli anziani di Efeso, e cioè che «si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35); e per riconoscere che questo è vero che si tratti della famiglia, della comunità cristiana, della società civile…
È davvero una bella ricapitolazione di una vita intera, questa parola di Gesù, riportata da Paolo. «Si è più beati nel dare che nel ricevere!». Sì, è vero, a dare, e a dare senza riserve, senza calcoli, senza secondi fini, senza esibizionismi, con particolare attenzione ai più poveri e deboli, si può anche passare per fessi, per poco furbi, per perdenti… ma solo così si scopre la beatitudine assicurata dal Signore Gesù, solo così si semina per un raccolto sovrabbondante, capace di superare anche l’esiguità della nostra vita.
Nella preghiera che Gesù rivolge al Padre, subito prima della Passione, e della quale abbiamo ascoltato alcune frasi nel Vangelo ora proclamato, Gesù prega anche per i suoi discepoli, quelli di allora, ma anche quelli che sarebbero venuti dopo di loro – anche noi che siamo qui. Gesù ha pregato e tuttora, risorto e vivente nella pienezza della vita di Dio, prega non perché ci estraniamo da questo mondo ma perché, restando in esso, siamo custoditi dal male e dal Maligno (cf. Gv 17,15 [vangelo del giorno]).
Pensando a ciò che è stata la vicenda anche umana e professionale di Maurizio, ci conforta pensare che il Signore chiede a noi credenti di stare nel mondo, e di non sottrarci agli impegni e alle responsabilità che ciò comporta. Non dobbiamo averne paura. Ci basta sapere della sua custodia, ci basta sapere della sua preghiera, ci basta sapere che per noi, perché fossimo custoditi dal male, Gesù ha dato Sé stesso, ha dato la sua vita, in quel dono d’amore che ritroviamo ogni volta che ci riuniamo attorno al suo altare.
Quando avremo dato il nostro «ad-dio» – che vuol dire il nostro affidare a Dio – a Maurizio, perché raggiunga la Gerusalemme del cielo, sapremo dov’è che dovremo tornare noi: dov’era stato anche lui, nel mondo, nella famiglia, nella società civile, nella comunità cristiana, custoditi dall’amore del Signore, con la certezza che «si è più beati nel dare che nel ricevere», e sicuri che nulla andrà perduto, di ciò che avremo seminato nell’amore, per il bene dei fratelli.