Cimitero maggiore di Crema, 1 nov. 2019
Venire in un luogo come questo – un cimitero, il luogo di «quelli che dormono», questo sarebbe il senso originale del termine; o un «camposanto», come pure lo chiama la tradizione cristiana – se non è soltanto un gesto meccanico, ripetizione di un’abitudine un po’ stanca, è un gesto che può suscitare in noi alcune domande importanti.
Una di queste, una delle domande inevitabili, credo, quando ci si confronta con il mistero della morte, riguarda il tempo della nostra vita – quel tempo che viene interrotto dalla morte. Che senso ha questo tempo? Perché è misurato diversamente per ciascuno di noi? Perché ad alcuni viene concessa una vita lunga, mentre altri sono portati via brutalmente quando potevano avere ancora davanti a sé molti anni di vita, almeno secondo i nostri standard attuali?
Non pretendo naturalmente di dare risposta risolutiva a una domanda sulla quale si sono soffermati e interrogati i grandi geni dell’umanità. Provo a dire però qualcosa a partire dalla festa che celebriamo oggi, la festa di tutti i Santi, e mentre siamo alla vigilia della commemorazione dei fedeli defunti, che la Chiesa celebra domani.
L’apostolo Giovanni, nella seconda delle letture che abbiamo ascoltato, presenta la situazione dei credenti come una situazione di tensione, tra un «già» e un «non ancora»: «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato» (1Gv 3, 2). Anche all’inizio del passo che è stato letto l’apostolo diceva che noi «siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (v. 1), e proprio in questa condizione possiamo scorgere il segno dell’amore di Dio per noi. Essere già figli di Dio significa essere già partecipi della vita piena, della vita «riuscita», potremmo anche dire o, con parola più biblica, della «vita eterna»: quella vita il cui modello, e la cui condizione, è Gesù Cristo.
Il linguaggio della santità dice la stessa cosa: ed è per questo che spesso, nei testi di Paolo ma non solo, vediamo che i cristiani sono chiamati «santi»; non quelli del cielo, ma proprio i cristiani che vivono ancora in questo mondo sono detti «santi». E sono tali non perché siano particolarmente bravi, ma perché Dio li ha resi santi: e li ha resi santi proprio grazie al dono del suo amore, del suo perdono, della sua vita, comunicata attraverso Gesù Cristo. Essere santi, essere figli di Dio è, in definitiva, la stessa cosa; e la certezza cristiana è che lo siamo già. Al tempo stesso, però, non lo siamo ancora, non in modo pieno e definitivo. Siamo santi, e al tempo stesso incamminati verso la santità; siamo figli di Dio, e però dobbiamo ancora diventarlo in pienezza.
Sembra una cosa strana, ma potremmo chiederci: non dovremmo dire lo stesso per la nostra condizione umana? Siamo già uomini e donne, certo: ma la nostra umanità non è anche un compito, una vocazione, un chiamata? Siamo sicuri che la «qualità» della nostra umanità sia già arrivata al culmine?
Credo che dovremmo dire, onestamente: essere uomini e donne in pienezza e verità è per noi anche un compito, qualcosa che ancora non abbiamo realizzato. Ed è un compito che richiede tempo, il tempo di una vita, appunto. Mi sembra che una possibile risposta alla domanda: «perché il tempo della nostra vita, per farne che?», possa suonare più o meno così: per diventare sempre più e sempre meglio quegli uomini e quelle donne che siamo chiamati a essere, per onorare la vocazione a vivere con pienezza la nostra umanità. Per questo abbiamo bisogno del tempo, che è misurato diversamente per ciascuno di noi; e qualche volta, almeno, intuiamo che anche quelle vite che ci sembrano interrotte dalla morte, incompiute, possono essere in realtà vite «realizzate», vite che hanno portato a termine quel «compito di umanità», affidato a ciascuno di noi.
E vorrei aggiungere che, per un credente, il «compito di umanità» e il «compito di santità» non sono due cose veramente diverse. Perché i credenti sono convinti che il dono e la chiamata alla santità non disumanizzano l’uomo, al contrario: lo chiamano al compimento più alto che ci possa essere, proprio perché Dio ci ha mostrato in Gesù Cristo la santità come umanità vera e piena, la santità come «trasfigurazione», se vogliamo, della nostra umanità, certo non come sua negazione o distruzione. È questo anche il senso delle beatitudini che abbiamo ascoltato: che sono promessa di vita piena, e al tempo stesso anche sfida ai criteri umani di questa pienezza, perché proclamano beati quelli che a prima vista proprio non lo sono, i poveri, gli afflitti, i miti, i perseguitati…
Ci vuole davvero il tempo di una vita, per riuscire a entrare in questa logica evangelica, e per onorare l’umanità che è in noi, e il suo compimento nella santità che Dio ci dona, e alla quale ci chiama.
Qui, in questo luogo dove riposano i nostri cari, la nostra speranza è che la morte non abbia interrotto brutalmente il loro cammino verso la santità, ma lo abbia portato a compimento, per farli entrare in quella moltitudine immensa di salvati – cioè di santi – di cui ci ha parlato l’Apocalisse: moltitudine immensa, che è segno e promessa dell’umanità intera diventata la famiglia di Dio, la comunione dei santi, dove piena umanità e santità divina sono diventate un’unica e medesima cosa.