Celebrazione cittadina del “Corpus Domini” – Omelia

Crema, Giardini pubblici di Porta Serio, 20 giugno 2019

È senz’altro comprensibile, a un primo sguardo, la reazione dei discepoli di fronte alla richiesta di Gesù, che dice: «Voi stessi date… da mangiare» a questa grande folla (cf. Lc 9, 13). Hanno a malapena di che mangiare qualcosa nel loro piccolo gruppo: come può bastare, per una folla così grande? È senz’altro più ragionevole la loro proposta organizzativa: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta» (v. 12).
Sembra, però, che i discepoli si siano già dimenticati ciò che, pure, hanno vissuto poco prima. All’inizio di questo capitolo 9 del vangelo, infatti, si legge il racconto dell’invio dei Dodici in missione. Gesù li aveva mandati «ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi» (9, 2); e non è che li avesse equipaggiati con mezzi abbondanti, anzi: aveva detto loro: «Non prendete nulla per il viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due tuniche» (v. 3); nulla, dunque, neppure lo stretto necessario, neppure il pane! Eppure, la missione aveva avuto successo, perché l’evangelista racconta che «essi uscirono e giravano di villaggio in villaggio, ovunque annunciando la buona notizia e operando guarigioni» (v. 6): se avevano potuto operare guarigioni, come Gesù, evidentemente avevano fatto esperienza della presenza e dell’azione di Dio, nonostante la scarsità dei mezzi a loro disposizione.
L’episodio che noi chiamiamo della moltiplicazione dei pani – ma è sempre bene ricordare che nessun evangelista usa questa parola, «moltiplicazione» – avviene proprio al ritorno dei discepoli dalla missione. In un certo senso, la richiesta di Gesù: «Voi stessi date loro da mangiare» non è altro che una conferma di ciò che già hanno fatto, come se Gesù dicesse: avete già sperimentato che Dio è capace di fare cose straordinarie anche quando i vostri mezzi sono scarsi, addirittura nulli… Allora, su, non vi spaventate di fronte a ciò che sembra impossibile, di fronte alla sproporzione tra ciò che vi viene richiesto e le risorse che pensate di avere.
Ma è come se quell’esperienza di prima fosse svanita, tramontata. Uso questa immagine del tramonto, perché è l’ora nella quale avviene anche l’episodio che abbiamo ascoltato nel Vangelo: «Il giorno cominciava a declinare», osserva l’evangelista (v. 12); e questo particolare rimanda a un’altra occasione simile, quella del celebre episodio – che solo Luca racconta – dell’incontro di Gesù risorto con i discepoli di Emmaus. Anche quell’incontro avviene al tramonto, tanto che i discepoli chiedono al pellegrino che si è fatto loro compagno di strada: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (24, 29; in greco, come succede spesso, la somiglianza è ancora più evidente).
Ma anche per i discepoli di Emmaus, come per i Dodici nel brano di oggi, prima che il sole era stato qualcos’altro a declinare, e cioè la loro speranza, la fiducia che avevano riposto in Gesù e nel Regno da lui proclamato e reso presente. Qui, di fronte alla sproporzione tra un compito che sembra impari, impossibile da realizzare; là, di fronte al fallimento di Gesù, e alla sua fine drammatica, di fronte alla croce. «Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele…» (24, 21), ma la speranza si è spenta, il sogno del Regno di Dio è tramontato di fronte a tante evidenze della vita quotidiana che portano via ogni sogno, anche e soprattutto quello che avrebbe voluto affidarsi alla fedeltà di Dio.

Eppure, Gesù aveva lasciato ai suoi discepoli qualcosa che doveva proprio sostenerli nel momento del tramonto dei sogni e delle speranze. Lo aveva lasciato nel profondo della tenebra, addirittura «nella notte in cui veniva tradito» (1Cor 11, 23); nel momento, cioè, meno adatto, meno opportuno, umanamente parlando: nell’ora dell’oscurità, del tradimento, del rinnegamento, della confusione, appena prima della fuga dei discepoli… E i discepoli, infatti, in quel momento non hanno capito nulla!
Quando, però, Gesù ripete lo stesso gesto fatto in quell’ultima sera, in quell’ultima cena, e già anticipato proprio davanti alla folla affamata; quando «prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”» (1Cor 11, 23 s.; cf. Lc 9, 16); quando «fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc 24, 30). Allora, in quel Pane spezzato, e nel Calice del vino, i discepoli sono arrivati a riconoscere che c’è qualcosa di più forte di ogni impotenza umana, di ogni fallimento, di ogni sproporzione tra la grandezza del disegno, del ‘sogno’ di Dio, e ciò che i nostri poveri occhi riescono a vedere: e questo «qualcosa» è il dono d’amore di Dio più forte della morte; quel dono che si manifesta pienamente in Gesù crocifisso e risorto, perché egli è il primo a consegnarsi totalmente a quell’amore, mettendo la sua vita nelle mani del Padre e donandola per la salvezza dei fratelli; quel dono che rimane per sempre con noi nel sacramento dell’Eucaristia.
Rimane, certo, sempre contrassegnato dalla «logica pasquale»: perché l’Eucaristia non è la soluzione miracolosa al problema delle folle affamate, e non è neppure la consolazione a buon mercato di chi ha visto le speranze svanire. I discepoli di Emmaus riconoscono Gesù allo «spezzare del pane», ma questo riconoscimento li mette subito in cammino per annunciare il risorto (cf. Lc 24, 33-35); ai Corinzi Paolo ricorda ciò che Gesù fece «nella notte in cui veniva tradito», ma perché la comunità di Corinto faccia un serio esame di coscienza a riguardo delle divisioni che ci sono al suo interno, e anche a riguardo del modo in cui i poveri sono calpestati e lasciati ai margini… (cf. 1Cor 11, 17-22).
Il compito di dar da mangiare a chi ha fame, di dar da bere a chi ha sete, di vestire chi è nudo, di prendersi cura del malato ecc. (cf. Mt 25, 34 ss.) rimane intatto, per i discepoli di Gesù: «Voi stessi date loro da mangiare». Lo possiamo fare non perché contiamo anzitutto sui nostri mezzi ma perché, proprio nutrendoci al Corpo e al Sangue di Cristo e contemplando questo mistero di dono e di amore, ci rendiamo conto sempre meglio che siamo stati amati gratuitamente, mentre eravamo peccatori e lontani da Dio (cf. Rm 5, 6-10); e lasciandoci attirare da questo mistero di amore e perdono, possiamo assumere con fiducia il compito che sempre da capo il Signore assegna ai suoi discepoli: rendere presente nel mondo il Regno di giustizia, di amore e di pace del Padre.
È un compito sproporzionato, senz’altro: che cos’è, quel che abbiamo, di fronte a un’impresa così grande? Ma, come diremo tra poco nel Prefazio, «il suo corpo per noi immolato è nostro cibo e ci dà forza, il suo sangue per noi versato è la bevanda che ci redime da ogni colpa»: e questo ci basta, per non venir meno nel cammino e accogliere la missione che sempre da capo il Signore affida ai suoi discepoli.