A 120 anni dalla nascita e battesimo del b. Alfredo Cremonesi

Martedì 17 maggio 2022, ricorrendo il 120° anniversario del battesimo del b. Alfredo Cremonesi, il vescovo Daniele ha presieduto l’Eucaristia nella chiesa di Ripalta Guerina, dove il beato ricevette il battesimo. Riportiamo l’omelia tenuta dal vescovo.

Sono passati centovent’anni dalla nascita e dal Battesimo che il beato Alfredo Cremonesi ha ricevuto proprio in questa chiesa. Centovent’anni sono un periodo più che abbondante, per dimenticare tante cose, e soprattutto tante persone, specialmente se la loro vita è stata breve.
A noi Dio fa la grazia di custodire la memoria di un figlio di questa comunità parrocchiale, che è stato strumento prezioso, vivente e libero, della sua opera di salvezza: un cristiano, prete e missionario, che ha portato a pienezza il dono del Battesimo, ricevendo la grazia del martirio.
Per certi aspetti, questo dovrebbe essere il coronamento della vita di ogni battezzato. Non ci deve sembrare eccessiva, una cosa del genere. Durante la Veglia pasquale – che è il momento nel quale rinnoviamo la nostra professione di fede battesimale – ascoltiamo la lettura della lettera di Paolo ai Romani, nella quale l’apostolo ricorda che

“per mezzo del battesimo… siamo stati sepolti insieme a [Cristo] nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova… Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù” (Rm 6,4.8-11).

Insomma, il cristiano è colui che muore e vive con Cristo e di Cristo; e il martire, a sua volta – come il beato Alfredo – è colui che muore e vive con Cristo e di Cristo. Ciò che ha incominciato a fare proprio qui, al fonte battesimale, centovent’anni fa, nel piccolo Alfredo Cremonesi, venuto al mondo da poche ore, unendolo alla morte e risurrezione di Gesù Cristo, Dio lo ha portato a compimento a Donoku, il 7 febbraio 1953, quando p. Alfredo ha versato il suo sangue per amore di Cristo e dei suoi cristiani.
Il cristiano, il battezzato, deve allora cercare il martirio? Per certi aspetti, sì: nel senso che dovrebbe custodire sempre, e desiderare di vivere in pienezza ciò che il battesimo ha incominciato in lui. Solo che, normalmente, non si tratta del martirio nel sangue: si tratta di quello che il b. Alfredo, in questa lettera straordinaria scritta esattamente cento anni fa, il 17 maggio 1922, alla zia suora, chiama il «martirio incruento», un martirio di cui magari nessuno si accorge, e che non finisce sugli altari («nascosto agli occhi profani»).
Che non è altro se non la vita cristiana vissuta sul serio; la vita cristiana in quanto attraversata dalla novità della Pasqua di Cristo; la vita cristiana in quanto testimonianza – non dimentichiamo che questo è il senso originario della parola ‘martirio’ – resa a Cristo per il ‘semplice’ fatto che si cerca di vivere secondo il suo vangelo, che si cerca di seguire, dal Battesimo in poi, la via che Gesù ha tracciato come via di vita piena, come via di amore, di gioia, di pace.
Sorprende che Gesù parli di pace ai suoi discepoli (cf. Gv 14,27: vangelo di oggi) proprio alla vigilia di un’ora violenta, l’ora della sua passione e croce. Ma la pace che egli dona non è, appunto, quella del “mondo”: è invece la pace che scaturisce dal fatto che egli ama il Padre (sapendosi amato da Lui) e «come il Padre [gli] ha comandato, così [egli] agisce» (cf. v. 31).
La pace che Gesù dona è quella che scaturisce dallo stare pienamente nell’amore del Padre: che è amore impegnativo, esigente, che chiede di essere accolto e donato anche di fronte al rifiuto, alla violenza, all’odio…
E questo è ciò che Gesù fa, ed è ciò che dona ai discepoli: e che, allora, diventa impegnativo anche per loro, anche per noi – perché, insomma, accogliere la pace che Gesù dona significa poi fare come ha fatto lui, significa stare nell’amore del Padre e accettare di testimoniarlo in ogni circostanza, anche senza arrivare al martirio del sangue, che Dio dona a chi vuole lui.
Padre Alfredo questa cosa l’ha capita benissimo: e certo ci dà da pensare che a vent’anni tutto questo fosse già chiarissimo nel suo cuore – espresso naturalmente nel linguaggio di un giovane seminarista di cento anni fa (e per di più un giovane seminarista che amava scrivere e usare la retorica del suo tempo).
Ma non lasciamoci fuorviare dallo stile di questa lettera: perché ciò che più ci importa è la sostanza di qualcosa che il beato Alfredo riconosce che può essere anche frutto di presunzione – il suo desiderio di

“essere missionario, correre per lande inospiti e crudeli ad annunziare la buona novella, instancabilmente giorno e notte, a tutti e dappertutto, con la parola e con l’esempio, con la penna e soprattutto con la preghiera, e poi suggellare il mio apostolato con il martirio, fecondare con il mio sangue i germi che avrò gettato in quei solchi aridi e incolti”.

Appunto: «Sono troppo presuntuoso?», si chiede; ma poi continua: «Sarà, ma io sono convinto che questi sentimenti me li ispira Iddio».
E aveva ragione. Non toccava a lui dirlo: doveva essere la Chiesa a farlo, dopo aver riletto la vicenda della sua vita e della sua morte, e riconoscere, come ha fatto, la sua santità. E noi siamo qui, questa sera, alla sorgente di tutto: al fonte battesimale, dove tutto è incominciato. Guardando a quell’inizio, e guardando alla sua fine gloriosa, mettiamo nell’Eucaristia, che è il rendimento di grazie per eccellenza a Dio per tutti i suoi doni, la nostra gratitudine per la testimonianza battesimale, sacerdotale e di martirio del beato Alfredo.
E chiediamo di riuscire almeno un po’ a seguire i suoi passi, perché anche dalla nostra vita di battezzati, di cristiani, si riconosca che vogliamo stare nell’amore del Padre, e fare ciò che possiamo per testimoniarlo nel nostro mondo.