18° anniversario della morte del Servo di Dio d. Luigi Giussani

Lunedì 27 febbraio il vescovo Daniele ha presieduto in Cattedrale la S.Messa in occasione del 18° anniversario della morte del Servo di Dio don Luigi Giussani. Riportiamo di seguito l’omelia del vescovo.

Subito dopo le parole di Gesù che abbiamo adesso ascoltato (cf. Mt 25,31-46), l’evangelista Matteo annota: «Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli: “Voi sapete che fra due giorni è la Pasqua e il Figlio dell’uomo sarà consegnato per essere crocifisso”» (Mt 26,1).
Ci troviamo, quindi, all’inizio del racconto di passione. L’espressione «terminati… questi discorsi», l’evangelist l’ha già usata (con qualche variante) quattro volte, nel vangelo, per indicare la conclusione dei grandi discorsi di Gesù che, nel vangelo di Matteo, sono come i pilastri che sorreggono tutto l’edificio.
Il vangelo di oggi è la conclusione dell’ultimo di questi discorsi, il quinto: e di fatto l’evangelista nota: «terminati tutti questi discorsi…»: come a dire che così l’insegnamento è completo, e i cinque grandi discorsi di Gesù, che si leggono nel vangelo, sono il compimento, la pienezza dell’antica Legge, della Torah di Israele, che corrisponde ai primi cinque libri della Bibbia e che, secondo la tradizione ebraica, Dio ha dato all’uomo attraverso Mosè.

È significativo, allora, vedere come si chiude questo insegnamento, quali sono le ultime parole che Gesù consegna ai discepoli, prima della sua passione.
Notiamo subito che l’ultima parola di quest’ultimo discorso è: vita eterna!: «E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna» (Mt 25,46). Lo sguardo di Gesù si orienta alla pienezza: così come, alla fine dell’ultimo discorso di Mosè nel quinto libro della Torah – quello che noi chiamiamo il Deuteronomio – si racconta dalla morte di Mosè e, subito prima, della contemplazione della Terra promessa: nella quale egli non entra, ma che Dio gli fa contemplare dall’alto del monte Nebo (cf. Dt 34,1-4).
Anche il nuovo Mosè, Gesù, prima di entrare nel cammino che lo condurrà alla morte, contempla la terra promessa: alza lo sguardo verso quella vita eterna che è la grande promessa di Dio all’uomo, di Dio al suo popolo: pienezza di vita in Dio, al di là della morte, che viene offerta ai credenti e anzi a tutti, come proprio il vangelo di oggi ci ricorda.
È giusto e doveroso alzare lo sguardo, orientare la speranza verso ciò che è più forte e più grande dei nostri limiti. È indispensabile, per chi vuol essere cristiano, avere questa speranza forte: averla, custodirla, alimentarla e testimoniarla anche agli altri, proprio perché sta al cuore del vangelo.
Mi sembra di capire che questa sia stata una parte non secondaria del fascino che don Luigi Giussani ha saputo esercitare nei confronti di tanti: la capacità appunto di far alzare lo sguardo, di orientarlo verso l’«oltre», verso la promessa di Dio e il dono di vita, e di vita eterna, che viene da lui e che risuona nel vangelo di Gesù.

Quando poi ci chiediamo in che modo orientarci a questa vita eterna, come incamminarci verso di essa, lo sguardo viene brutalmente riportato in basso, su situazioni molto terrene, a anche molto attuali, e molto concrete. È lo sguardo (e non solo lo sguardo, evidentemente, ma tutto: mani, piedi, cuore, intelligenza, volontà…) chiamato a orientarsi verso chi ha fame, chi ha sete, chi è nudo, malato, straniero, prigioniero…
Il sentiero che conduce alla vita eterna non passa attraverso le nuvole, ma attraverso questa nostra vita terrena complicata, piena di problemi, e soprattutto passa attraverso l’incontro con chi più patisce, viene scartato, dimenticato, trascurato…
Inutile sottolineare quanta attualità ci sia nelle “cose concrete” indicate da Gesù: perché ci sono ancora milioni di persone che soffrono di fame, che non hanno accesso all’acqua, che non hanno condizioni dignitose di vita, ci sono malati e anziani trascurati, prigionieri maltrattati, profughi e migranti che muoiono cercando una vita migliore – li abbiamo visti ancora una volta, ahimè, anche in questi ultimi giorni, a grande vergogna nostra, del nostro Paese, della nostra Europa!
Naturalmente, grazie a Dio che sostiene la buona volontà di tanti uomini e donne, non c’è solo questo: ci sono appunto tante e tanti, anche sconosciuti, anche di quelli che alla fine diranno: «Ma davvero, Signore, ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere, o straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito, o malato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Ma quando mai?» (cf. vv. 37-39). «E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”» (v. 40).
La strada della «vita eterna» è questa. Non chiede di dare l’assalto al cielo, ma di chinarsi umilmente su questa terra, nella quale il Figlio di Dio ha messo la sua dimora, scendendo così in basso da scegliere, come trono di gloria, la croce di un malfattore, e identificandosi con chi sta all’ultimo posto e viene spesso scartato ed emarginato.

L’intenzione particolare di questa celebrazione in memoria del Servo di Dio don Luigi Giussani, come abbiamo ascoltato, dice così: «Nella memoria grata di don Giussani chiediamo al Signore di poter corrispondere con tutta la nostra vita all’invito rivoltoci da Papa Francesco il 15 ottobre di accompagnarlo nella profezia per la pace, nella profezia che indica la presenza di Dio nei poveri, nella profezia che annuncia la presenza di Dio in ogni nazione e cultura».
Mi sembra che il vangelo che abbiamo ascoltato orienti e illumini bene questa intenzione. La chiamata alla vita eterna, con cui si chiude il vangelo, ci ricorda qual è l’orizzonte ultimo della pace, appunto come pienezza della vita in Dio, che possiamo solo ricevere come suo dono immeritato, per cercare poi di diventarne servitori nel mondo.
Il criterio del giudizio, che il Signore ricorderà nell’ultimo giorno, è appunto quello dei poveri, nei quali Egli si fa presente. E poiché questo giudizio riguarda «tutti i popoli» (cf. Mt 25,32), sappiamo da dove partire, per annunciare la presenza di Dio in ogni nazione e cultura: partiamo dalla carità, partiamo dalla fraternità vissuta, perché ogni uomo, ogni donna, possa riconoscere vicino a sé, attraverso il fratello, la presenza piena di misericordia, perdono e salvezza, che Dio offre a ogni creatura.