Solennità di tutti i Santi – Omelia del vescovo Daniele

Cattedrale di Crema, 1 novembre 2019

Diverse volte, nei giorni scorsi, qui e anche in altre chiese della diocesi, abbiamo cantato l’ultima frase del testo dell’Apocalisse, che abbiamo ascoltato nella prima lettura: questi che compongono «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,9), «sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v. 14).
Abbiamo cantato queste parole come parte dell’Inno al beato Alfredo Cremonesi, la cui beatificazione abbiamo solennemente celebrato in questa nostra cattedrale sabato 19 ottobre. Nel ritornello di quell’inno si dice appunto che il beato martire Alfredo, che ha versato il suo sangue per Cristo, ora «gioisce nel cielo con la schiera dei giusti e dei santi che ovunque hanno seguito l’Agnello, nel cui sangue hanno lavato la veste». 
La successione, a distanza di neppure due settimane, tra la beatificazione di padre Alfredo e la festa di tutti i Santi, che stiamo celebrando, ci aiuta a cogliere meglio il senso di queste parole. Così, infatti, noi non separiamo la testimonianza eroica – fino al martirio – del beato Alfredo dalla compagnia dei tantissimi giusti e santi (una «moltitudine immensa», dice appunto l’Apocalisse) che hanno conformato la loro vita a quella di Gesù Cristo. Nessun santo è mai solo un eroe solitario: è parte, invece, di quell’immensa famiglia di santi, che oggi celebriamo, e nei quali intravediamo il compimento, il destino vero della Chiesa e dell’umanità tutta.
Ma non separiamo padre Alfredo neppure da noi, che viviamo ancora in questa nostra condizione terrena: perché è appunto in questa condizione che Dio fa maturare la nostra santità, la nostra piena somiglianza con Gesù Cristo.
Lo abbiamo sentito nelle parole dell’apostolo Giovanni, all’inizio della seconda lettura: «Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1Gv 3, 1). Essere realmente «figli di Dio» significa appunto che siamo già stati introdotti nella condizione del Figlio per eccellenza, che è Gesù: la vocazione alla santità è vocazione a diventare sempre più e sempre meglio ciò che già siamo, per dono di Dio, e cioè «concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio» (cf. Ef 2, 9).
E ci vuole del tempo, di solito – il tempo di una vita – perché possiamo «diventare ciò che siamo». Il tempo che ci è dato è appunto il tempo necessario perché si plasmi in noi, poco alla volta, questa nostra somiglianza con Gesù Cristo.
Quando abbiamo preparato la celebrazione della beatificazione di padre Alfredo Cremonesi, ci siamo chiesti quale immagine usare, nel momento del rito in cui appunto viene scoperta l’immagine del beato. Ci siamo chiesti se far eseguire un ritratto, oppure se usare una fotografia, come poi abbiamo fatto; e ci siamo chiesti quale fotografia usare, tra le alcune che avevamo, e che ritraevano il beato Alfredo a età diverse.
Alla fine, abbiamo optato per una delle ultime immagini, quella di un padre Alfredo precocemente invecchiato, con la barba lunga e grigia… l’immagine di un vecchio, anche se aveva poco più di cinquant’anni, al momento della morte. L’immagine di un vecchio, ma con uno sguardo straordinariamente bello, uno sguardo profondo di mitezza e di dolcezza; uno sguardo nel quale si può scorgere «fisicamente», anche attraverso la fotografia e a distanza di anni, proprio il frutto del lavoro di Dio sulla vita di un uomo, per plasmare in lui la somiglianza con Gesù Cristo, per condurlo alla pienezza della sua umanità secondo Dio, che è precisamente la santità.
Perché non c’è niente di disumano, nella santità. Ciò che Dio pensa per noi, la meta alla quale ci chiama – la santità, appunto – non può essere negazione di quell’umanità che Lui stesso ha voluto e plasmato per noi. Nessuna negazione dell’umano, ma il suo compimento vero. Poi, sì, dobbiamo ammettere che il compimento dell’umano secondo Dio non è sempre quello che noi spontaneamente ci immaginiamo.
La proclamazione del vangelo delle beatitudini ce lo ricorda con chiarezza: perché le beatitudini affascinano, ma sfidano anche il nostro buon senso. Gesù proclama la beatitudine – e proprio così conferma che Dio vuole la pienezza della nostra umanità; ma poi parla di beatitudine di chi è povero, di chi ha fame e sete, di chi è perseguitato, di chi è nell’afflizione…
Bisognerebbe rileggere anche la vicenda e i testi del beato Alfredo, per rendersi conto di che cosa significano queste beatitudini, e per rendersi conto di quanto sia stato impegnativo, anche per lui, cogliere la verità di queste beatitudini, dentro le fatiche immense della sua vita di missionario.
La contemplazione della «moltitudine immensa» dei santi, che Dio ci dà come «amici e modelli di vita», ci aiuti a non sottrarci al lavoro quotidiano della santità in noi; lasciamo che lo Spirito di Dio plasmi la nostra umanità secondo la proposta di Gesù Cristo e del suo vangelo.
Se, per grazia di Dio, ci saranno più santi non solo in cielo, ma su questa nostra terra, in mezzo a questa nostra umanità – e tutti i santi sono stati santi qui, anzitutto! – essa ne potrà essere solo arricchita e compiuta in tutta verità.