Solennità di san Pantaleone, patrono della Diocesi – Omelia del vescovo Daniele

Cattedrale di Crema, 10 giugno 2020

Non capita a tutti i vescovi di celebrare la festa patronale della città e della diocesi in un momento come questo, dopo cento giorni difficilissimi, e mentre cerchiamo di aprirci a una situazione auspicabilmente un po’ più leggera e sopportabile.
E non capita a tutti i vescovi di onorare un patrono come san Pantaleone, che, prima di testimoniare Cristo fino al sangue, ha esercitato la professione di medico, ed è stato scelto come patrono proprio per aver protetto da pestilenze e pandemie la città e il territorio di quella che sarebbe poi diventata la diocesi di Crema.
Capite che è forte la tentazione di approfittare di questa doppia circostanza per affliggervi con una specie di lectio magistralis su tutto ciò che abbiamo vissuto, sugli insegnamenti che ne dovremmo trarre e così via.
Cerco di resistere alla tentazione: ma proprio perché il nostro patrono è quello che è – un santo medico e martire, un santo invocato contro pestilenze ed epidemie – e a ragione del momento nel quale ci troviamo, sono consapevole di non poter prescindere dalla situazione che abbiamo vissuto e stiamo vivendo.
Provo allora a condividere solo tre frammenti di riflessione, partendo dai testi biblici che abbiamo ascoltato, che raccolgo intorno a tre parole.

1. La prima è la parola colpa, sottintesa nelle frasi di Davide, riportate nella prima lettura. La peste aveva colpito il popolo di Israele: era la punizione divina per un peccato di orgoglio compiuto dal re Davide, che aveva ordinato il censimento del popolo. Il censimento, nella Bibbia, è visto come una specie di affermazione di proprietà: il re che fa la conta del suo popolo è il re che si dimentica che quel popolo non è una sua proprietà; il popolo, che egli deve governare con sapienza, giustizia e attenzione speciale ai più deboli, appartiene solo a Dio.
Di qui, appunto, la punizione, e cioè la peste, che colpisce il popolo: ma la responsabilità è di Davide, ed è lui, infatti, a dire a Dio: «Io ho peccato; io ho agito da iniquo; ma queste pecore che hanno fatto?» – che colpa ne hanno, insomma?
Certo, che la colpa fosse di Davide e non del popolo, non viene meno per noi la fatica di pensare la peste come punizione divina. È una fatica comprensibile: proprio la Bibbia, del resto, testimonia un percorso che la fede biblica ha compiuto nei secoli, per lasciarsi alle spalle l’idea di un Dio punitore e vendicativo – una visione di Dio che sarà esplicitamente rigettata da Gesù.
Per chi crede in Dio, peraltro, non è le cose diventino più facili: in un certo senso, sarebbe più semplice far risalire a Lui la responsabilità, pensare l’epidemia come una punizione divina; e qualcuno ha voluto farlo anche in occasione di questa pandemia.
Cercare «di chi sia la colpa» è, non dico sempre, ma spesso, una strategia fuorviante. Dobbiamo invece, come dice un personaggio – un prete – de La peste di A. Camus, accettare di stare ai piedi del muro che ci nasconde la spiegazione; non dobbiamo pretendere di scavalcarlo troppo rapidamente, questo muro, e neppure cercare di buttare colpe o responsabilità su altri. Piuttosto, come dice ancora quel personaggio, si tratta di «cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentare di far del bene».
Ed è proprio ciò che abbiamo visto in tanti modi, nei mesi scorsi: tanti uomini e donne che non hanno perso tempo a discutere della colpa, e hanno tentato, invece, di fare del bene. A loro Dio renda merito.

2. La seconda parola l’abbiamo sentita nel passo della prima lettera di Pietro, ed è la parola speranza. Pietro pensa qui alla speranza che sostiene i cristiani, e che permette di affrontare anche la sofferenza, l’ingiustizia, il male, fino al martirio: di questa speranza il cristiano dovrebbe rendere conto «con dolcezza e rispetto».
Esistono tanti modi di manifestare la speranza. «Andrà tutto bene»: l’avevamo espressa anche così, la speranza, specialmente per sostenere e incoraggiare i nostri bambini.
Guardando all’indietro – ma anche nella consapevolezza delle difficoltà ancora presenti – si potrebbe dire, da un lato, che era una frase un po’ troppo leggera. Tante cose non sono andate e non stanno andando bene. Non c’è bisogno di rifarvi l’elenco di ciò che ben ricordate, dei mali che abbiamo vissuto, delle fatiche nelle quali ancora ci stiamo dibattendo e di altre che probabilmente ci accompagneranno per un po’. Non tutto, certamente, è andato bene, e non tutto andrà bene neppure nel futuro.
Per altro verso, dire che «andrà tutto bene» è ancora poco, esprime una speranza insufficiente. Per il cristiano, per lo meno, è insufficiente. La speranza, di cui il cristiano vorrebbe essere testimone nel mondo è quella che si fonda sulla Pasqua di Gesù: quella Pasqua che nei mesi scorsi abbiamo celebrato in un modo così fuori dall’ordinario.
La speranza del cristiano ha il coraggio di germogliare lì dove tutto sembra perduto: non soltanto dove ci sono fatiche e tribolazioni, limitazioni e confinamenti, sofferenze e lutti come quelli che abbiamo vissuto. La Pasqua proclama la vittoria di Dio e del suo amore fedele di fronte al fallimento totale, al disastro assoluto, di fronte alla fine miserevole e vergognosa di un uomo che era appunto passato «facendo del bene» (cf. At 10, 38), Gesù di Nazaret.
La speranza, alla quale il cristiano vuole rendere testimonianza a favore di tutti, è la speranza che guarda alla novità di Dio per il mondo; è la speranza che non si augura semplicemente un «ritorno alla normalità», ma crede alla nuova creazione, e si affida al Dio che «fa nuove tutte le cose» (cf. Ap 21,5). Per questo è una speranza esigente, che domanda, anche da parte nostra, creatività e immaginazione.
Non ci assicura, certo, che il nostro futuro saranno già i «cieli nuovi e nuova terra»: però ci dice che è possibile incominciare a seminare questo futuro, che riceveremo come dono di Dio.

3. Di questa semina ci ha parlato Gesù nel vangelo, paragonando la sua passione e morte, ormai imminenti, appunto al destino del seme, buttato nella terra per produrre un frutto abbondante. Ci ha parlato insomma di fecondità, che è la terza e ultima parola di questa mia riflessione.
Probabilmente l’ho già detto in altre occasioni: mi colpisce, nelle parole di Gesù, il fatto che egli presenti come «legge generale» ciò che lui sta vivendo nella sua situazione assolutamente unica, singolare: «Chi ama la sua vita la perde…».
«Chi ama la sua vita» vuol dire, qui: chi fa della sua vita una proprietà da custodire gelosamente, un bene da difendere a tutti i costi, un tesoro da proteggere contro tutto ciò che mi minaccia, e contro gli altri, visti come potenziali nemici o, almeno, concorrenti. Chi, della vita, fa questo, l’ha già perduta, perché la condanna alla sterilità: seme chiuso in un vaso, che potrà magari anche durare nel tempo, ma rimanendo inerte, morto, di fatto.
Chi invece rinuncia a difendere così la propria vita; chi accetta di metterla in gioco, di donarla, costui la conserva per sempre, perché le permette di essere feconda, generativa: nel modo unico di Gesù Cristo, la cui vita donata è salvezza per il mondo; ma anche nei modi più ‘semplici’ (ma non meno veri), con i quali ciascuno di noi può dare fecondità alla vita, accettando di vivere nella logica del dono di sé.
Ogni situazione di prova, di tribolazione, come quella che abbiamo vissuto, ci riporta davanti a questa scelta: sterilità o fecondità, difesa a oltranza di un nostro possesso, oppure offerta lieta e generosa di ciò che siamo e di ciò che sappiamo fare, poco o tanto che sia. Fin qui può arrivare quel «tentare di fare del bene», di cui parla Camus: fino a fare della propria vita un dono, come ha fatto il Signore.
Abbiamo visto, anche nei mesi scorsi, non pochi esempi di questa seconda strada. San Pantaleone, che non ha avuto paura di donare la vita – prima come medico, poi come testimone di Cristo fino al martirio – sia per noi di incoraggiamento e di esempio, perché anche la nostra vita, proprio anche a partire dal dramma della pandemia, possa partecipare della fecondità che ci è promessa nella Pasqua di Gesù Cristo.