
«Non abbiate paura» (Lc 2,9)
Lettera del vescovo Daniele per il Natale del Signore 2020
Carissime sorelle e fratelli della Diocesi di Crema,
desidero raggiungervi in questi giorni che precedono la celebrazione del Natale del nostro Signore Gesù Cristo, per rivolgere a tutti voi i miei auguri più affettuosi e cordiali, e anche per condividere alcune riflessioni, che l’avvicinarsi del Natale, in questo tempo ancora segnato dalla pandemia Covid-19, hanno suscitato in me.
Un presepio in dieci parole
All’inizio del tempo di Avvento, vi avevo proposto di avvicinarci al Natale suggerendovi di rifare nello spirito, con Maria e Giuseppe, il cammino da Nazaret a Betlemme: un cammino che ho immaginato segnato da incertezze e preoccupazioni, e però anche abitato dalla speranza, quella speranza che accompagna l’imminente nascita di un figlio – e, in particolare, di quel Figlio.
Se, come spero, avete preparato il presepio nelle vostre case, davanti a esso potete contemplare l’esito di quel viaggio, fissando lo sguardo in particolare su ciò che sta al centro – non solo del presepio, ma di tutto il mistero che celebriamo nel Natale. L’evangelista Luca, nel secondo capitolo del vangelo, lo riassume in pochissime parole, dicendo che i pastori, avvisati dall’angelo, «andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia» (Lc 2, 16).
A partire da questo «presepio in dieci parole» (l’espressione, se non ricordo male, è dello scrittore Luigi Santucci), ascoltandolo con voi nel racconto dell’evangelista, celebrandolo nella liturgia e contemplandolo nel presepio fatto di paesaggi, statue e case, vorrei condividere alcune riflessioni, incentrate sulle nostre paure e su come il Natale può aiutarci a superarle.
I pastori, mandati dall’angelo a guardare questo «segno» del «bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (cf. v. 12), avevano vissuto poco prima l’esperienza della paura, e di una paura anche intensa: si «spaventarono parecchio» (v. 9), dice l’evangelista, di fronte a questa improvvisa irruzione del divino nella loro vita. Ma, esortati dall’angelo a «non avere paura» (v. 10), sentendosi annunciare, in contrapposizione alla «grande paura» sperimentata prima, una «grande gioia» (v. 10), invitati ad andare a vedere il «segno» del bambino appena nato e decidendo di mettersi in cammino, si resero conto che davvero non c’era niente di cui aver paura, non c’era da spaventarsi di nulla.
Dio andava loro incontro nel modo più debole e disarmato che si potesse pensare: un bambino appena nato, e nato non nel palazzo di un re o nella casa di un ricco signore, ma deposto nella mangiatoia, in mezzo agli animali domestici. E proprio questa semplicità, questo modo inerme di presentarsi di Dio, è il primo antidoto alla paura che ci viene proposto dalla celebrazione del Natale.
Le paure di Erode e le nostre
Nei «vangeli dell’infanzia» di Matteo e Luca, l’episodio che più di tutti ci fa vedere cosa significa vivere sotto il peso della paura, è senza dubbio quello dei Magi e di Erode, raccontato nel secondo capitolo del vangelo di Matteo. In questo episodio, il linguaggio della paura non compare quasi mai esplicitamente: con molta chiarezza, tuttavia, questo racconto ci fa vedere a quali esiti devastanti può condurre un modo di vivere che fa della paura il criterio di condotta delle proprie scelte e dei propri comportamenti.
Sì, certo, non siamo Erode, ci mancherebbe. Ma la paura è un tarlo insidioso, più di quanto non pensiamo, e vale la pena di considerarla da vicino. Riflettendo un po’ sui mesi che abbiamo vissuto e su ciò che ancora stiamo sperimentando, a seguito della pandemia Covid-19, ho provato a chiedermi quali paure ci portiamo dietro, quali scelte di vita ne conseguono, e quale liberazione ci può venire dalla celebrazione del Natale del Signore.
Senza la pretesa di essere completo, penso ad esempio, a:
– la paura della malattia, delle sofferenze che ne possono derivare, e della morte come possibile esito;
– la paura della solitudine, dell’isolamento;
– la paura che deriva dall’incertezza per il futuro, a causa delle conseguenze economiche e sociali della pandemia (e anche a causa, diciamolo, del continuo altalenante susseguirsi di norme e raccomandazioni e ‘protocolli’, che hanno accompagnato questi mesi); e anche perché, dobbiamo purtroppo ricordarlo, non abbiamo certezze su quando (e come) tutto finirà;
– la paura dell’altro, perché può essere strumento di contagio, o perché, nella precarietà del tempo che viviamo, si rischia più facilmente di vederlo come un avversario, un nemico;
– la paura di Dio; sì, anche questa, dal momento che c’è chi, dimentico di Gesù Cristo e del suo vangelo, Gli attribuisce direttamente la responsabilità di ciò che stiamo vivendo.
A tutte queste paure, vorrei poi aggiungere quella che sottilmente mi sembra la già decisiva, e che direi così: la paura del non-senso, la paura che tutto ciò che stiamo vivendo – dipenda dalla «natura», dal ‘destino’, dalla sapienza o insipienza di noi uomini – sia alla fine qualcosa di assurdo: un assurdo al quale probabilmente ci adattiamo per lo più con piatta rassegnazione, conformandoci (quando va bene) alle precauzioni che ci sono chieste, e sperando che alla fine tutto passi e si possa tornare alla «normalità».
Lasciarsi la paura alle spalle
Il «presepio in dieci parole», contemplato dai pastori e antidoto alle loro e nostre paure, è composto in definitiva di tre persone, elencate in questo ordine; Maria, Giuseppe e il bambino. Ciascuno di loro può insegnarci qualche via per uscire dalla paura e affidarci alla speranza che Dio suscita per il mondo con il Natale di Gesù. Li riprendo in ordine inverso.
Gesù: Dio-con-noi in questo mondo e in questo tempo
Gesù, il bimbo nato da Maria, è il Dio-con-noi (cf. Mt 1,23). Egli ci offre una via di libertà dalla paura anzitutto grazie alla sua vicinanza, venendo ad abitare in mezzo a noi. Ci sono episodi del vangelo che renderanno la cosa sempre più chiara – penso in particolare a quello che ci racconta di Gesù che dorme sulla barca sballottata dalla tempesta (cf. Mc 4,35-41), e che, alla paura dei discepoli che si sentono oramai perduti, risponde mettendo a tacere il vento e il mare, ma poi anche rimproverando i suoi: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40). Non a caso – ricordate? – è il testo che papa Francesco ha commentato nel momento di preghiera da lui guidato il 27 marzo scorso, mentre eravamo nel cuore della prima fase della pandemia.
Certo, è più facile vedere l’aiuto che Gesù può dare, per sconfiggere le nostre paure, davanti a un episodio come questo. Ma un bambino, che aiuto può dare? Se mai, è lui che ha bisogno di aiuto. D’altra parte, la stessa domanda si pone davanti all’uomo sulla Croce: che aiuto potrà mai darci, come potrà liberarci dalle nostre paure, lui che, pur avendo salvato altri, si mostra incapace di salvare se stesso? (cf. Mc 15,31).
Ma per aiutare a uscire dalla paura, tante volte non occorrono azioni spettacolari. Qualche prete che è stato ammesso nei reparti Covid-19 degli ospedali per dare un po’ di assistenza ai malati e in particolare ai morenti, mi ha detto che certe volte tutto ciò che il malato chiede è di avere questa presenza vicina, è di sentirsi tenuto per la mano.
Tanti gesti di questo genere si sono ripetuti, lo sappiamo, nella prima fase della pandemia. Sbaglio a pensare che allora, nei mesi più duri del lockdown, avevamo meno paura di adesso? Era così, credo, perché riuscivamo – rispettando il distanziamento – a sentirci più stretti, più vicini gli uni agli altri, e in questo modo più protetti dalla paura. Penso che dobbiamo imparare di nuovo questo stile: e possiamo farlo anche aiutati dal presepio, che ci fa percepire la presenza discreta, silenziosa e sicura di Dio nella nostra vita.
Giuseppe: agire con responsabilità e coraggio
Nella drammatica vicenda che fa seguito alla visita dei Magi, anche di Giuseppe si dice che ebbe paura: accadde quando, tornando dall’esilio in Egitto, venne a sapere che il figlio di Erode, Archelao, regnava sulla Giudea e, avvertito da un sogno, ancora una volta decise di andarsene e ritirarsi in Galilea, a Nazaret (cf. Mt 2,22-23).
Non mi stupirei nel sapere che Giuseppe ha avuto paura anche in altre occasioni – in particolare quando, da un momento all’altro, scopre che deve scappare con la sposa e il bambino ancora piccolo, per andare a vivere, come un rifugiato, in Egitto e fuggire così dalla furia infanticida di Erode, vero culmine della tirannia della paura.
Se vedo bene, la risposta di Giuseppe alla paura è, insieme con l’affidamento a Dio, la prontezza dell’agire, con il quale risponde a ciò che ha accettato di fare: si assume, in altre parole, le proprie responsabilità, e lo fa con coraggio creativo.
Ne parla papa Francesco, nella recente Lettera apostolica dedicata a san Giuseppe (la cui figura il Papa ci propone di tenere davanti a noi per tutto questo anno, fino all’8 dicembre prossimo): è quel coraggio che «emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti, davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere» (Francesco, Lett. ap. Patris corde, 8 dic. 2020, n. 5).
Questo coraggio creativo è tra i migliori antidoti alle nostre paure, e anche la migliore risposta alla domanda, ricordata anche dal Papa a proposito delle vicende drammatiche dell’infanzia di Gesù, «perché Dio non interviene, in mezzo alle nostre difficoltà?».
Ma Egli interviene grazie anche al nostro coraggio creativo e responsabile. Nei mesi scorsi abbiamo avuto esempi belli di questo modo coraggioso di assumersi le proprie responsabilità, nel tempo difficile della pandemia. Dubbiamo ora, credo, orientare un po’ lo sguardo anche sul futuro, e incominciare a chiederci: come far fronte al post-pandemia, quando dovremo fare i conti con le tante macerie – sociali, economiche, psichiche, educative e anche religiose – che ci troveremo davanti?
Non c’è altra via che sentirsi responsabili gli uni degli altri, e anche della Chiesa e della società, e rispondere con coraggio creativo alle sfide che già ci troviamo davanti. Non c’è tempo per la paura.
Maria: chiedere la sapienza del cuore
Ci fanno paura le situazioni che non riusciamo a capire: vuoi per mancanza di conoscenza, vuoi perché il loro «senso» ci sfugge. La conoscenza, come pure la percezione di un «senso», che dia ragione di ciò che stiamo vivendo, richiedono a volte un cammino lungo, tortuoso, e che ha bisogno di molta pazienza e perseveranza. Ciò che Maria e Giuseppe vivono con il loro Figlio, ricevuto da Dio in questo modo così singolare, non è per niente chiaro neppure a loro: le occasioni di smarrimento, di incomprensione, non mancheranno.
Due volte, almeno, l’evangelista Luca ci addita in Maria l’atteggiamento giusto da assumere: «Maria… custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (2,19.51).
Abbiamo bisogno di riflettere con pazienza, e con una sapienza capace di abbracciare tanti ambiti diversi, anche su quanto abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo. Abbiamo bisogno di rifletterci anche da credenti, perché corriamo il rischio – io per primo – di voler giungere troppo rapidamente a giudizi in qualche modo conclusivi.
Da Maria impariamo la pazienza di un cuore che sa mettere ogni cosa davanti a Dio, anzitutto nella preghiera e nell’ascolto docile della Parola; di un cuore che non pretende di avere subito tutte le risposte, ma non per questo si sgomenta; di un cuore che sa sopportare anche le angosce e sofferenze che la vita porta con sé (cf. Lc 2,48) – ma sa pure cantare di gioia, perché vede che Dio è all’opera e non si stanca di realizzare il suo progetto di salvezza (cf. Lc 1,46-55).
Non usciremo dalla paura per la strada facile della superficialità, del desiderio che tutto finisca al più presto e ce lo possiamo lasciare alle spalle. Da credenti ne usciremo, ritengo, solo se sapremo anche noi pensare nella fede ciò che stiamo vivendo; se sapremo condividere con tutti gli altri ciò che fede e intelligenza ci suggeriscono; se sapremo collaborare a offrire prospettive di vita buona a questo mondo, segnato da tanti mali e fatiche, ma sicuramente amato da Dio, che non ritira il dono del proprio Figlio, venuto a liberarci dalla paura e ad aprirci alla speranza.
Contempliamo il presepio, perché la celebrazione della nascita di Gesù ci liberi dalla paura, e ci dia coraggio, fortezza, sapienza, per vivere bene quella vita che il Signore dell’universo ha voluto fare sua, dalla mangiatoia di Betlemme fino alla Croce piantata sul Calvario, per aprirla a quella pienezza che solo Dio sa dare.
Buon Natale!
Crema, 19 dicembre 2020
+ Daniele Gianotti