Natale 2020, Messa del giorno – Omelia del vescovo Daniele

Riportiamo l’omelia del Vescovo per la Messa del giorno di Natale, celebrata in Cattedrale il 25 dicembre 2020

«La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,5): ho citato già ieri sera, celebrando qui in Cattedrale la «Messa della notte» di Natale in un orario un po’ inconsueto, queste parole del prologo del vangelo di san Giovanni, che abbiamo ascoltato poco fa. Le ho citate per ricordare che, quale che fosse l’orario nel quale celebravamo la Messa della notte, l’essenziale non cambia. La nascita del Figlio di Dio rappresenta comunque la vittoria della luce sulle tenebre, su quel mondo che ci sembra abbandonato a se stesso, quando non vi splende la luce di Dio, quando sembra prevalere l’oscurità dovuta a ciò che a noi appare assurdo, inspiegabile o incontrollabile (è stata e in parte è ancora l’esperienza che stiamo facendo con la pandemia); e anche l’oscurità che dipende dal male che noi compiamo, perché – lo ricorda il profeta Isaia, il grande profeta dell’Avvento e del Natale – vi sono purtroppo quelli «che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro» (cf. Is 5,20).
Sì, ci sono costoro; e forse, chissà, qualche volta ne abbiamo fatto parte anche noi. La celebrazione del Natale, la proclamazione della vittoria della luce di Cristo sulle tenebre, diventa allora motivo di speranza per noi, per la tenebra che può esserci in noi. E può aiutarci, questa vittoria, a riconoscere le tante luci, grandi e piccole, che brillano ancora nel nostro mondo.
Le ho ricordate anche nella Messa della notte, chiedendomi che cosa ricorderemo di questo anno 2020, segnato dalla pandemia, di questo Natale vissuto in mezzo a tante limitazioni: e ho detto, e ripeto qui, che mi piacerebbe se potessimo ricordare soprattutto le molte luci che abbiamo visto accendersi, anche in modo inaspettato. Solo per fare qualche esempio, ho accennato alle luci dei nostri medici e infermieri in ospedale, alle luci dei volontari che si sono prodigati in aiuto di chi rimaneva chiuso in casa, alle luci dei nostri catechisti che hanno continuato ad accompagnare i ragazzi nel cammino della fede, a quelle di chi ha offerto tempo, beni e denaro in aiuto dei più poveri, alle famiglie che hanno dovuto affrontare prove durissime e impreviste, all’impegno degli insegnanti e di chi opera nella scuola, ai nostri educatori nelle attività estive per i ragazzi…
La vittoria della luce di Cristo sulla tenebra non è solo un pio racconto per devoti: essa si manifesta ancora in mezzo a noi e nel mondo, e certamente si è manifestata anche in questo anno, che ci è sembrato così oscuro.

La pagina con cui si apre il quarto vangelo, ascoltata poco fa, ci parla anche di un’altra vittoria, che esprimerei così: la vittoria della parola sul silenzio. Protagonista del Prologo del vangelo di Giovanni è infatti il «Verbo», il «Logos» dei greci: ma è quella Parola di cui tante volte leggiamo nella Bibbia, quella parola attraverso la quale Dio vuole entrare in relazione con noi, vuole diventare nostro amico e fratello; quella parola che ci consegna come bene prezioso, perché sa che è strumento indispensabile anche del nostro vivere insieme.
È ben vero che l’esperienza della parola può essere tante volte deludente; che la parola può essere ingannevole, o anche solo incerta, fragile, incapace di aiutare e sostenere – quante volte, specialmente davanti a un ammalato, sentiamo la vanità e inutilità delle parole e allora, sì, percepiamo che forse solo il silenzio, ma un silenzio ricco di presenza e vicinanza, è ciò che possiamo offrire. Ma senza parola non possiamo vivere. «Se tu non mi parli, dice un salmo rivolgendosi a Dio, io sono come uno che scende nella fossa» (Sal 28,1) – s’intende la fossa della morte, gli inferi: se non mi parli, insomma, sono come un morto.
Il nostro padre Gigi Maccalli, nelle testimonianze che ci ha dato in questi ultimi mesi della sua esperienza di prigionia, durata due anni, nel deserto del Sahara, ci ha fatto capire molto bene cosa può essere questa sensazione del silenzio di Dio, al quale egli ha gridato tante volte senza, apparentemente, ricevere risposta. Lo stesso padre Gigi ci ha aiutato anche a capire quanto può essere drammatica la mancanza di parola tra noi: l’estrema difficoltà di comunicare con i suoi carcerieri, e non soltanto per la mancanza di una lingua con cui parlare, ma proprio per la distanza, potremmo dire, di mondi, di idee e convinzioni, che rendeva estremamente difficile, se non impossibile, stabilire un vero dialogo; e anche il dramma dell’impossibilità di comunicare con i suoi cari, con i suoi confratelli, le sue comunità… Anche tra noi, del resto, lo sappiamo, non c’è purtroppo modo più efficace di marcare la distanza, la chiusura dei rapporti, che il venir meno della parola: «io con te non parlo più…».
E invece: Dio ha parlato, e tuttora ci parla. L’abbiamo sentito anche nella seconda lettura, prologo, a sua volta, della Lettera agli Ebrei: «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio…» (Eb 1,1-2).
Dio ci parla nel modo più comprensibile che si possa dare, perché «il Verbo», la Parola stessa di Dio, la Parola che è Dio, «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14): la Parola ha assunto le parole, i gesti, il volto le sembianze di uno di noi, di Gesù di Nazaret. In lui Dio ci parla nel modo più umano che si possa dare, si consegna a noi nella fratellanza e nell’amicizia, perché nel suo Figlio, Parola fatta carne, Parola che si dice nella nostra umanità, siamo invitati a sentirci tutti figli (cf. Gv 1,12), e fratelli e sorelle tra noi (ce l’ha ricordato il Papa nella sua recente enciclica Fratelli tutti); e quel Figlio, Gesù di Nazaret, continua a offrirci e a offrire a tutti la sua amicizia (cf. Gv 15,15).
In questo modo anche la nostra parola reciproca può essere riscattata e salvata: e può diventare, anzi, parola che crea vera comunione, che offre compagnia e vicinanza, che aiuta a trovare un senso delle cose, che riconcilia lì dove c’è offesa, che cerca le vie delle pace dove c’è conflitto, che dà conforto dove viene meno la speranza.
La crisi della pandemia dovrebbe averci insegnato anche quale bisogno c’è, nel nostro mondo, di una parola più vera, più forte e autentica; di una parola meno gridata e più pensata; di una parola magari più rara, e però più incisiva; di una parola che non offende e non demolisce, ma cerca il dialogo e si propone di edificare relazioni autentiche e positive.
Il Natale proclama la vittoria della Parola sul silenzio, della luce sulle tenebre. Questa vittoria ci è data in Gesù, luce del mondo, Parola fatta carne. Ci è data perché l’accogliamo per fare della nostra vita un riflesso di quella luce, delle nostre parole un prolungamento di quella Parola. Ci conceda Dio la grazia di saper dire parole di bene, parole di pace, parole di gioia e di speranza; e, quando le parole dovessero venir meno, ci conceda di essere, con tutta la nostra vita, un riflesso della sua luce, che non si lascia vincere dalle tenebre.