Messa ‘nella cena del Signore’ – Omelia del vescovo Daniele

Il vescovo Daniele ha presieduto la celebrazione della “Messa nella Cena del Signore” in Cattedrale, giovedì santo 1 aprile 2021. Riportiamo di seguito la sua omelia.

 

La Cena del Signore (cf. 1Cor 11,20), la cui istituzione commemoriamo in questa santa liturgia, fa parte del cammino di Gesù verso la Pasqua: e infatti abbiamo ascoltato il racconto di questa santa Cena anche domenica scorsa, durante la liturgia delle Palme, quando è stato letto al completo il racconto della passione del Signore.
Dobbiamo dire, però, qualcosa di più: e precisamente, dobbiamo dire che la Cena del Signore indica il senso, ossia la direzione e anche il punto di arrivo di quel cammino. La Cena del Signore, fondamento e punto di partenza di ogni nostra celebrazione eucaristica, rivela il dinamismo della speranza, che sta alla base di tutto il cammino di Gesù verso la Croce.
Si è discusso molto, e forse si discute ancora, tra gli studiosi della Bibbia, per capire se quella Cena fu una Cena pasquale, che poi Gesù ha trasformato nel modo in cui ci dicono i vangeli (così sembra alla luce dei vangeli di Matteo, Marco e Luca), o se fu qualcosa di un po’ diverso – come vorrebbe il vangelo di Giovanni, secondo il quale Gesù è stato crocifisso prima dell’ora in cui si celebrava la Cena pasquale…
Certo, fu una Cena vissuta nel contesto, nell’atmosfera, potremmo dire, della Pasqua; e fu – su questo gli studiosi sembrano essere più d’accordo – una cena di addio, un momento nel quale Gesù ha voluto congedarsi dai suoi discepoli, prima dell’ora drammatica della Passione, nella quale essi lo avrebbero abbandonato, lasciandolo solo nell’ora del dolore, nell’ora delle tenebre.

Ma cosa significa «cena di addio»? Un indizio di risposta ci viene proprio da questa parola, addio, che noi abbiamo un po’ svilito, un po’ rattrappito come formula di saluto un po’ desolata. Ma questa parola contiene il nome di Dio, e deriva da frasi come «ti raccomando a Dio, ti affido a Dio», dette alla persona che si saluta.
«Cena di addio» vuol dire, dunque, che attraverso quei gesti e quelle parole, affidate ai discepoli, Gesù dice loro la direzione di tutto ciò che sta per accadere: tutto avviene «a Dio», tutto porta verso di Lui, anche e soprattutto l’ora drammatica entro la quale questa Cena si compie. Come poi dirà in modo straordinario il quarto vangelo – l’abbiamo appena ascoltato – l’ora della Passione è l’ora del passaggio di Gesù «da questo mondo al Padre» (cf. Gv 13,1), passaggio che avviene precisamente perché Gesù, nel dono pieno di sé a Dio e ai fratelli, trasfigura il dramma della Passione in porta di speranza.
Facendo della sua vita (il corpo donato) e della sua morte (il sangue versato) un dono radicale e senza riserve, Gesù dischiude precisamente la via attraverso la quale tutto viene ricondotto «a Dio», e tutto ritrova in Lui un orizzonte di speranza che nulla potrà più scalfire.
La Cena del Signore ci dice che nulla andrà perduto, di ciò che viene affidato a Dio: nemmeno ciò che a noi sembra più inutile e vano, nemmeno ciò che a noi appare in perdita, privo di senso e di futuro. Il pane e il vino che metteremo tra poco sull’altare sono insieme tanto e poco. Frutti della terra e del lavoro dell’uomo, segnati dalla benedizione divina; e dunque ‘tanto’! Al tempo stesso, sono poca cosa, non bastano certo a sfamare l’uomo e a risolvere tutti i suoi problemi.
Ma tutto viene messo nelle mani di Dio, così come Gesù si è messo nelle mani del Padre, non stando lì a calcolare se la sua missione avesse avuto o meno successo, se i risultati del suo ministero fossero significativi – umanamente parlando, si potrebbe anzi dire che il suo fu un fallimento…
Ma nel movimento della Pasqua, tutto è affidato a Dio, tutto è consegnato a Lui: la nostra Eucaristica continua a compiere – per Cristo e in Cristo – questo affidamento, perché solo così tutto raggiunge la sua meta, e ciò che a noi sembra in perdita viene trasfigurato dall’amore del Padre, nella potenza del suo Spirito, così che quel pane e quel vino sono il sacramento del cammino pasquale del Figlio, sacramento della speranza che non viene meno.

Di questa speranza noi abbiamo più che mai bisogno. Se ci pensiamo bene, i primi due decenni del terzo millennio, dal quale ci attendevamo chissà che cosa, sono stati pieni di delusioni. Il dramma della pandemia è solo l’ultimo di eventi e vicende che hanno ferito crudelmente le nostre attese di un futuro migliore.
Ma il modo in cui noi cristiani guardiamo alla speranza è proprio quello che ci viene insegnato nella Pasqua, e che l’Eucaristia ci permette di rinnovare e sostenere. È il modo di chi sa che tutto viene trasfigurato e condotto al suo futuro vero e promettente, se affidato a Dio, nella gioia e nel dolore, nella riuscita e nell’insuccesso, nei tempi buoni e in quelli più amari e deludenti.
Anche per questo abbiamo bisogno di partecipare all’Eucaristia: attraverso di essa siamo sempre più sorretti e alimentati da questa speranza: e, al tempo stesso, siamo condotti a capire che questa trasfigurazione tanto più avviene, quanto più ci rendiamo capaci di fare della nostra vita un dono.

Questo è anche il senso profondo della lavanda dei piedi, che questa sera non possiamo celebrare, ma che abbiamo sentito raccontare nel vangelo. È un gesto di servizio, di carità umile e generosa: ma non dimentichiamo che l’evangelista lo introduce ricordando che colui che lo compie, il Signore Gesù, è colui che «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1), cioè fino al compimento, fino alla pienezza.
Il vangelo della lavanda dei piedi non ci parla soltanto di un gesto di carità, di servizio: ci parla di una vita donata, potremmo dire di una vita perduta nel dono di sé nell’amore senza riserve – e per questo di una vita salvata, di una vita che in se stessa è espressione della speranza più forte della morte.
Nell’Eucaristia riceviamo questo dono, e impariamo poco alla volta a viverlo, riconoscendo che la speranza di cui abbiamo bisogno prende corpo ogni volta che sappiamo anche noi piegarci nell’umiltà di un servizio come quello che il Signore ha fatto, finché tutta la vita, donata nell’amore, diventi quel rendimento di grazie, quell’Eucaristia vivente che siamo chiamati a diventare, sull’esempio del nostro Signore e Maestro (cf. Gv 13,13-15), e nutrendoci di Lui, Pane vivo disceso dal cielo (cf. Gv 6,51).