Messa di Pasqua: Omelia del vescovo Daniele

La domenica di Pasqua, 12 aprile 2020, il vescovo Daniele ha presieduto la santa Messa in Cattedrale, a porte chiuse, trasmessa in diretta streaming e per radio. Riportiamo di seguito la sua omelia.

 

L’annuncio della Pasqua del Signore, il vangelo della sua risurrezione, incomincia da una mancanza, da un’assenza: da più di un’assenza, anzi. Intorno alla tomba di Gesù, è più ciò che non si vede, di quanto si può vedere. «La pietra era stata tolta dal sepolcro» (Gv 20, 1), questa è la prima mancanza che si nota. E viene interpretata come un segno negativo: quella pietra doveva custodire il sepolcro, e il corpo di Gesù, che vi era stato deposto. E Maria Maddalena non si prende neanche la briga di controllare, di capire meglio: per lei quell’assenza è subito segnale di un’altra perdita, di un’altra mancanza: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto» (v. 2).
Ciò che inaspettatamente ci manca è fonte di turbamento, di destabilizzazione: credo che sia stata anche la prima percezione che abbiamo avuto quando, nelle settimane scorse, a causa dell’emergenza sanitaria, sono venute a mancare molte cose abituali della nostra vita. Sono venuti meno, anzitutto, i nostri riferimenti «normali»: la scuola per i ragazzi e i giovani (che forse, lì per lì, non hanno sentito molto la mancanza…), i nostri incontri consueti, le nostre abitudini, e cose via via più importanti e gravi, come il lavoro, la libertà di spostarci, o la possibilità di vedere i nostri cari e le persone che amiamo… e, naturalmente, più di ogni altra cosa, per gli ammalati, la perdita della salute, che ha condotto tanti, troppi, specie tra gli anziani, fino alla perdita della vita: e così sono venuti meno gli affetti, i legami con persone alle quali volevamo bene…
Anche per noi cristiani sono venute meno cose importantissime, a cominciare dal nostro ritrovarci alla domenica con il Signore Gesù presente nella Parola e nell’Eucaristia; sono venute a mancare le cose che ruotano intorno alla parrocchia, l’oratorio, il catechismo, la visita dei preti alle famiglie e agli ammalati… Sono venute meno le celebrazioni pasquali, la gioia fisicamente condivisa di questa festa tra le feste, che è la Pasqua del Signore.
Siamo rimasti, dicevo, prima di tutto destabilizzati; ci è sembrato che non avremmo mai potuto sopportare tutte queste mancanze. Poi, forse, è subentrata una certa assuefazione: ci siamo adattati. Abbiamo cercato di fare i conti con tutte quelle mancanze, e scoperto una capacità di adattamento inaspettata – e forse anche pericolosa. Ce ne siamo fatti, più o meno, una ragione.
E chissà: forse anche Maria di Magdala, forse anche Pietro e l’altro discepolo avrebbero potuto farsi una ragione della perdita constata il mattino di Pasqua. Il corpo del Signore non era più nel sepolcro; qualcuno l’avrà portato via e nascosto chissà dove… pazienza! Sopportiamo anche questo, abbiamo sopportato tutto il trauma del suo arresto, della sua morte vergognosa… sopporteremo anche la scoperta della sua tomba vuota, l’assenza del suo corpo, ci limiteremo a custodire per un po’ il ricordo di lui, del suo insegnamento, del bene che aveva fatto…

Ma il mattino di Pasqua non è fatto per accontentarsi di un possibile adattamento, non è fatto per «farsi una ragione» di ciò che manca. Il mattino di Pasqua è il mattino nel quale la mancanza diventa trasparenza di qualcosa d’altro, che non è ancora chiaro, che non ha ancora contorni definiti, e che però sentiamo di poter intuire, se non proprio afferrare.
Intorno a quella tomba vuota, Maria continuerà a girare. E a quella tomba vuota vanno, anzi corrono, Pietro e l’altro discepolo. Perché correre, perché affannarsi, se là c’è soltanto il vuoto, l’assenza? Perché questo sguardo attento sulle cose, sui teli, sul sudario, come se potessero rivelare qualcosa di non ancora pienamente scoperto?
Del discepolo arrivato per primo al sepolcro, il discepolo amato da Gesù, che lascia rispettosamente a Pietro di fare la prima ispezione, si dice che entrò poi anche lui nel sepolcro, «e vide e credette» (v. 8). Che cosa vide? L’evangelista non mette un complemento, non spiega quale fu l’oggetto della visione. E forse i due verbi sono da leggere in modo complementare: vide, cioè credette. Vide con sguardo di fede, intuì che quel vuoto, quella mancanza, era solo il lato negativo, l’ombra di una presenza. Vide ciò che avrebbe dovuto da subito ricordare, pensando alle «Scritture»: che Dio, cioè, passa per sentieri che rimangono sconosciuti agli uomini; che le sue vie non sono le nostre vie; che ciò che agli uomini appare stolto e incomprensibile, è invece sapienza e potenza di Dio (cf. 1Cor 1, 24). Vide con la fede ciò che pure Gesù aveva già tentato di far capire ai suoi discepoli: che la sua croce era l’innalzamento nella gloria, che la sua morte era dono d’amore; che di Dio, del Padre, ci si poteva fidare sperando contro ogni speranza, perché Egli non vuole che nessuno si perda; e che, in particolare, Egli non avrebbe lasciato cadere nel vuoto il suo Figlio amato.
La mancanza, letta nella fede, fa emergere la presenza. La morte lascia il posto alla vita, il peccato cede il passo al perdono, la vergogna e la paura sono sopraffatte dalla gioia, il dolore diventa il passaggio per la consolazione e la grazia che vengono da Dio. Viene da dire: benedetta quella mancanza, benedetto quel vuoto, nel quale la fede impara a riconoscere la presenza di Dio, che dà la vita eterna al Figlio e affida a lui l’effusione dello Spirito di santità, che riempie ogni cosa ed è principio di vita piena, la vita trasfigurata nella gloria della risurrezione.
E viene da chiedersi: non potrebbe essere lo stesso anche per le nostre mancanze, per tutto ciò che abbiamo giudicato una perdita, uno spreco, in queste settimane? Intendiamoci: non è che abbiamo perso delle cose da poco, in questo tempo. Sì, forse, tra le cose che ci mancano ci sono anche frivolezze, cose secondarie e vane. Ma non c’è dubbio che abbiamo perso tanto, ed è giusto che ci teniamo a ricuperarlo. D’altra parte, anche la perdita di Gesù, anche solo la perdita del suo corpo mortale, posto nel sepolcro, non era una cosa da poco.
Ma questa perdita apre la porta a qualcosa di nuovo, che è appunto la risurrezione e la vita. E allora, forse, varrebbe la pena di riconsiderare anche le nostre perdite, anche tutto ciò che ci manca, e chiederci: che cosa Dio ci vuole donare, attraverso queste perdite? Anche nella perdita dolorosa (e temporanea) delle nostre Eucaristie, quale dono Dio vuole farci? Perché Dio non toglie nulla, se non per restituircelo, e per giunta centuplicato – ma, certo, a modo suo.
Forse, quest’anno, la sfida che viene dalla nostra celebrazione così strana della Pasqua non consiste tanto nel fare la conta delle cose che ci mancano, ma nel provare a scorgere la promessa di Dio, e ciò che il suo amore fedele ci vuole donare. Magari non lo scopriremo subito; avremo bisogno anche noi, come Maria di Magdala, di vagare un po’ in pianto intorno alla tomba vuota del Signore (cf. Gv 20, 11). Ma anche a noi il Risorto non tarderà a manifestarsi, a farci sentire la sua presenza, ad aprire i nostri occhi per scoprire tutto ciò che l’amore fedele di Dio ha in serbo per noi, anche se per ora non riusciamo a vederlo.
Ci aiuti il Signore risorto a riconoscere, nella sua Pasqua, l’amore di Dio, che dalla morte conduce alla vita, e nei nostri deserti fa scaturire sorgenti di grazia e benedizione.