Funerali di don Primo Pavesi

Mercoledì 18 agosto 2021, nella chiesa parrocchiale di Capergnanica, il Vescovo ha presieduto l’Eucaristia e il Rito di commiato per don Primo Pavesi, parroco emerito di Capergnanica, morto all’età di 91 anni il 16 agosto. Riportiamo di seguito l’omelia.

 

«Se ci tengo al trattamento di fine rapporto lavoro potete immaginarlo, ma quanto al tempo della riscossione, non ho fretta. Si sta bene da queste parti» (Breviario, p. 12).
Così scriveva don Primo poco più di dieci anni fa, nelle pagine introduttive del suo Breviario. Viaggio nella memoria di un parroco emerito, stampato nel 2009, quattro anni dopo aver concluso il suo ministero di parroco qui a Capergnanica.
Adesso, per don Primo, è arrivato il tempo della riscossione. La sua giornata terrena è terminata due giorni fa, nel modo più bello, credo, un prete possa desiderare: davanti a questo altare, dove stava incominciando la celebrazione dell’Eucaristia, che è stato chiamato a concludere in cielo.
Don Primo è arrivato ora al banco delle paghe, e scopre che cosa gli spetta, come «trattamento di fine rapporto lavoro»: un denaro, come ci ha raccontato Gesù nella parabola che abbiamo appena ascoltato.
Un denaro solo, anche se nella vigna del Signore don Primo ha lavorato a lungo: originario, come sappiamo, di Santa Maria della Croce, era stato ordinato prete il 28 giugno 1953, quando non aveva ancora compiuto i ventiquattro anni; è stato prete per poco meno di settant’anni, certamente lo si deve annoverare tra gli operai della prima ora.
E proprio l’immagine della vigna gli pareva particolarmente calzante a indicare il luogo del suo ministero. Scriveva così: «Da assistente dei Coltivatori Diretti e da parroco di comunità rurali ho sentito la parrocchia come una vigna». E richiamandosi sia alle parole di Gesù nei vangeli, sia alla favola di Esopo che parla di un tesoro nascosto nella vigna che un padre, morendo, affida ai figli, aveva intitolato La Vigna il bollettino parrocchiale mensile della comunità. E scriveva: «La parrocchia è stata dissodata. Di tesori nemmeno l’ombra, ma frutti sì e alcuni deliziosi. È cresciuto l’amore per la parrocchia, l’amore si è fatto servizio e il servizio gioia e la parrocchia si è fatta bella, aggiornata, appetibile» (Breviario, p. 162).
Don Primo si è immedesimato con quella forma di Chiesa che è la parrocchia, e in particolare la parrocchia di campagna (anche se è un piacere leggere le pagine nelle quali descrive l’animazione e i personaggi che circolavano intorno alla parrocchia di San Benedetto, dove rimase per quattordici anni come giovane prete, dopo i primi due passati a Trescore).
Della parrocchia ha visto la bellezza, ha saputo dipingerla con accenni anche ‘elegiaci’, ricordando in particolare gli anni passati a Ripalta Guerina. Da parroco di campagna, ha avuto i suoi amori: i campi, il fiume, gli animali, le piante… Senz’altro avrebbe saputo spiegare bene la parabola «vegetale» della prima lettura di oggi (cf. Gdc 9,6-15).
Parlando dei suoi amori, non posso trascurare il calcio, e la Juve in particolare! Ha scritto: «C’è chi stimola il proprio cervello ascoltando Mozart, chi contemplando Gauguin, chi ripassando una tesi di San Tommaso; io, non scandalizzatevi, assistendo in uno stadio o in una sala a una partita giocata dai bianconeri» (Breviario p. 245)…
E – anche per giustificare il fatto che nella bara di don Primo, oltre agli abiti sacerdotali di cui è rivestito, c’è anche una maglia della sua Juventus – vale forse la pena di citare queste altre sue righe: «La maglia juventina classica ha il fascino di una parabola evangelica, là dove si dice di un campo in cui è stato seminato del buon grano ed è cresciuta anche la zizzania: il bene e il male, luce e tenebra, bianco e nero, colori ben distinti, separati, inconciliabili come l’odio e l’amore, la verità e l’errore, la guerra e la pace» (Breviario, p. 246): tutte realtà che don Primo, anche nella sua predicazione, ci teneva a mantenere ben distinte, ben chiare, senza confusioni.
Dagli anni ’50 a oggi, però, le cose non sono state sempre così chiare. Don Primo ha assistito alle trasformazioni di un intero mondo, di un’intera società. Lui stesso attesta di non essersi però cullato nelle nostalgie. Ancora con immagine contadina, scriveva: «Ho vissute le annate pastorali come il contadino vive quelle agricole, dall’aratura alla semina, al raccolto. Ho temuto siccità e tempeste. Ho camminato al passo della mia gente. Ho trafficato i miei pochi talenti, compreso quello di un certo senso estetico che mi ha permesso di fare alcune cose che tanti dicono belle. Ho coltivato nascostamente un’ambizione che sa di sfida: lasciare le cose migliori di come lo ho trovate» (Breviario, p. 247).
Conversando con lui e parlando di preti e suore, qualcuno metteva in dubbio la loro capacità di amare. Don Primo rivendica questa capacità, anche a proposito di ciò che ho già accennato: la natura, gli animali, il calcio… E rivendica, naturalmente, il suo amore per Dio, per Gesù Cristo, per la Chiesa (cf. Breviario, p. 255).
Credo che sia da citare, specialmente in questo momento, questa sua frase: «Amo Gesù Cristo di cui condivido il sacerdozio nella certezza che chiuderà un occhio quando mi presenterò a Lui un po’ deforme per non essere riuscito ad essere un “alter Christus”» (ivi).
Poco prima aveva scritto: «Amo il prossimo perché è la strada larga e facile per arrivare a Dio» (ivi). E proprio sfogliando le pagine del suo Breviario, si coglie al di là di ogni dubbio la sua capacità di amare le persone: nel suo sguardo di volta in volta affettuoso, divertito, indulgente, spesso ironico, si percepisce un cuore grande, accogliente, perspicace; si scorre tutta la variopinta galleria di uomini e donne di ogni genere, età e condizione, che sono stati i compagni e le compagne di viaggio della lunga vita cristiana e sacerdotale di don Primo, e ai quali egli ha voluto bene.

Per tornare all’inizio, e al vangelo di oggi (Mt 20,1-16): arrivando a riscuotere il «trattamento di fine rapporto lavoro», don Primo scopre ora che gli spetta un solo denaro, quello che noi chiameremmo il «salario minimo»; e scopre che tanti altri e altre, che hanno lavorato molto meno di lui, ricevono la stessa sua paga. Se ne lamenterà, giudicherà questa cosa un’ingiustizia, come fanno – nella parabola – gli operai della prima ora (cf. vv. 11-12)?
Non credo proprio. Prima di tutto, perché – ne sono convinto – don Primo sapeva benissimo che la vera paga, il vero stipendio, è stato proprio il suo stesso ministero di prete: la vera ricompensa è la grazia, il dono, che Dio gli ha fatto, di poter lavorare così a lungo nella sua vigna.
E poi, perché mi sembra che a don Primo Dio abbia anche fatto dono di ciò che Gesù promette a Pietro e agli altri discepoli: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29; era il vangelo della Messa di ieri). Sì, don Primo è testimone che il centuplo, promesso dal Signore, gli è stato ampiamente accordato nella sua lunga vita terrena.
Di questo, con lui, vogliamo rendere grazie a Dio; e al rendimento di grazie aggiungiamo la nostra preghiera di suffragio, perché, pienamente purificato dall’eredità del peccato – di cui pure era ben consapevole – don Primo possa ora entrare nella vita eterna che il Signore Gesù assicura ai suoi discepoli e ministri.