Festa di S. Maria della Croce (2 aprile 2022)

La celebrazione dell’apparizione della Vergine in S. Maria della Croce è stata anticipata dalla data consueta (3 aprile) a sabato 2 aprile, con la liturgia della V domenica di Quaresima. Riportiamo l’omelia che il vescovo ha tenuto in quella celebrazione.

Vorrei provare a leggere il senso di questa nostra celebrazione principalmente alla luce delle parole che Paolo scrive ai Filippesi, e che abbiamo ascoltato nella seconda lettura (cf. Fil 3,8-14).
Sono parole di orientamento deciso verso il futuro; parole che respingono la nostalgia sterile verso il passato; non perché questo passato sia in sé negativo, ma perché anche un passato glorioso (Paolo l’ha rievocato poco prima, richiamando di ‘titoli onorifici’ della sua appartenenza a Israele) rischia di rimanere sterile, se diventa solo motivo di autocompiacimento, e perde di vista il compimento che solo Dio assicura.
Questa è ben presente già nei profeti, come ci ha ricordato la prima lettura: dove Dio stesso invita a non ricordare più le cose passate, non pensare più alle cose antiche (cf. Is 43,18): e il riferimento è, niente meno, ai grandi gesti di salvezza che hanno fondato l’esistenza stessa di Israele (la “strada nel mare”, il “sentiero in mezzo ad acque possenti”, sono un evidente richiamo all’Esodo). Ma Israele, ora – storicamente, si tratta dell’Israele esiliato a Babilonia –, è invitato ora a guardare a «una cosa nuova, [che] proprio ora germoglia» (v. 19), a guardare al nuovo atto di salvezza, che Dio sta per compiere, facendo tornare il suo popolo esiliato.
Lo sguardo verso il futuro, verso la promessa di Dio, appartiene da sempre alla vita nella fede. Questo anche perché il passato è inevitabilmente segnato dal limite, dal peccato. Nella vicenda della donna adultera, di cui abbiamo letto nel vangelo, si vede bene che, agli occhi di Gesù, questa situazione riguarda tutti.
Alcuni commentatori del vangelo di Giovanni, senza negare naturalmente che ci possa essere stato nella vicenda di Gesù un episodio concreto, come quello raccontato, pensano che si debba leggere l’episodio anche in chiave simbolica: sappiamo bene, del resto, che il simbolo delle nozze (e anche di ciò che le contraddice, e dunque l’adulterio) è molto usato nella Bibbia per parlare della relazione tra Dio e il suo popolo.
Anche in questa chiave, il racconto è chiarissimo; e mi sembra dire, appunto in forma di racconto, ciò che Paolo ha formulato magnificamente nella lettera ai Romani, quando, dopo aver a lungo ragionato sul rapporto tra Israele e gli altri popoli nel progetto di salvezza di Dio, conclude dicendo: «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza [del peccato], per usare a tutti misericordia!» (Rm 11,32).
Il racconto di Giovanni dice la stessa cosa: davanti a Gesù, incarnazione della misericordia di Dio, non stanno alcuni innocenti e una peccatrice; perché peccatrice, la donna lo è senz’altro, e Gesù non lo nasconde – altrimenti non le direbbe: «Va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).
Al tempo stesso, gli preme che si prenda coscienza che il peccato riguarda tutti, non però per condannare, ma perché tutti possano scoprire che c’è un futuro solo nella misericordia di Dio, e che questa misericordia egli è venuto a rivelare, piegandosi fino all’estremo della sua vita donata sulla croce (questo «chinarsi» di Gesù, più ancora che ciò scrisse sulla sabbia, e poi il suo «rialzarsi», dovrebbe attirare la nostra attenzione…).
Sì, Dio resta sempre il Dio che vuole aprire una strada all’uomo e al mondo: e la vuole aprire alla donna come ai suoi accusatori, e la apre effettivamente nel dono del suo Figlio. Per questo non ha senso fermarsi sul passato, come appunto ricorda Paolo scrivendo ai Filippesi: per quanto glorioso sia quel passato, non sarà mai completamente libero dal peccato, e non sarà mai all’altezza della novità di Dio, che si incontra accogliendo il suo Figlio, incarnazione definitiva della misericordia che libera e salva.

Paolo ci ricorda ancora che questo atteggiamento di apertura al futuro vale anche per il cristiano. Certo, il cristiano riconosce e professa che la salvezza, la misericordia, la pace, sono venute incontro all’uomo in Gesù Cristo; come dice lo stesso Paolo, in Cristo tutte le promesse di Dio sono divenute il “sì”, hanno trovato pieno compimento (cf. 2Cor 1,20).
Ma sarebbe contraddittorio pensare che Gesù Cristo sia già, per noi, una conquista acquisita, un possesso da mettere tranquillamente sotto chiave. Per questo, scrive l’apostolo, «dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,13-14).
Anche per noi cristiani, Gesù Cristo non sta soltanto dalla parte del passato, e neppure solo del presente (un presente nel quale possiamo riconoscerlo e accoglierlo mediante la fede). C’è una dimensione “futura”, nel nostro rapporto con il Signore Gesù: ed è rispetto a questa dimensione che vorrei ricordare qui oggi la vicenda di Caterina degli Uberti, che proprio in questo luogo, il 3 aprile 1490, ferita a morte dal marito, implorò e ottenne – per l’intercessione della Vergine Maria – la grazia di ricevere i sacramenti, prima di oltrepassare la soglia della morte.
Caterina, come la gran parte dei cristiani dell’epoca, aveva la convinzione – che noi forse abbiamo lasciato un po’ troppo affievolire – che solo al di là della morte si compie quel legame con il Signore Gesù, che dà senso e pienezza alla nostra vita; e che i sacramenti sono appunto strumento disposto da Dio per orientare la nostra vita non solo nel presente, ma anche nel mantenerla protesa verso il futuro.
Attraverso i sacramenti, desiderati e cercati in punto di morte, Caterina riconfermava che solo nella misericordia di Dio, più forte della stessa morte, la nostra vita può trovare il giusto compimento, la sua verità ultima. Anche i sacramenti fanno parte degli strumenti di quella “corsa” che siamo chiamati a vivere, protendendoci verso la meta, che è la piena comunione con Dio, in Cristo Gesù.
Noi cristiani siamo debitori verso il mondo: chiamati a testimoniare una misericordia che ci è dato di accogliere già adesso, e senza la quale non potremmo vivere; ma chiamati anche a testimoniare una mèta, alla quale tutti siamo incamminati, e che trascende il nostro presente, e dove la misericordia di Dio risplende in modo definitivo – e allora forse riusciremo a comprendere che in questa misericordia è davvero aperta a tutti, anche a quelli che il nostro giudizio ristretto vorrebbe escludere da essa.
Ci aiuti, in questo, la Vergine Maria. Nella preghiera dell’Ave, Maria, noi la invochiamo perché preghi per noi e ci assista, «adesso e nell’ora della nostra morte», come ha fatto appunto per Caterina. Sia lei a guidarci con il suo esempio e la sua intercessione verso Cristo, volto umano della misericordia di Dio; a lasciarci anche noi «conquistare da lui» (cf. Fil 3,12), correndo con perseveranza verso la meta preparata da Dio per noi.